Cresciuta, nei primi anni Quaranta, alla scuola di registi come Alessandro Blasetti (nel 1941, per esempio, è Lisabetta nella Cena delle beffe) e Carmine Gallone (sempre nel 1941 è Nerina nel suo Primo amore), maturata sulle assi del palcoscenico negli anni della guerra (fra l’altro, nel 1945-1946, è nella Pagnani-Ninchi-Brazzi), Valentina Cortese nell’immediato dopoguerra ha appena poco più di vent’anni ma, alle spalle una dozzina di film e vari spettacoli teatrali, è già un’attrice dalla personalità abbastanza definita: diafana ed esile, gli occhi grandi, il volto allungato, è perfetta nelle parti da “ingenua”, ma più che personaggi da collegiale monella e irriverente, in virtù del suo aspetto grazioso ma comunque un po’ convalescenziale, le si addicono soprattutto quelli di fanciulle malinconiche, sofferenti, trasognate.
Fino al 1946, quando ha il coraggio di andarsi a vedersi al cinema, non si piace mai: la prima volta che non si dispiace è in Roma città libera di Marcello Pagliero, dove è la dattilografa minorenne, povera, timida e gracile (la sua rivale è una piuttosto fiorente Marisa Merlini), che si innamora di Andrea Checchi. Dopodichè, rifà coppia con Checchi nella commedia Un americano in vacanza (1946) di Luigi Zampa, film che fra l’altro viene visto oltreoceano e le procura un contratto con la Fox per il 1949; poi è Barbara nel Passatore (1947) di Duilio Coletti; Louise de Renal nel Corriere del re (1947) di Gennaro Righelli; Esther nell’Ebreo errante di Goffredo Alessandrini (1948) e soprattutto Fantine e Cosetta nel kolossal di Riccardo Freda, distribuito nel 1948 in due episodi distinti (Caccia all’uomo e Tempesta su Parigi), I miserabili, tratto dal romanzo di Victor Hugo: si tratta di un doppio ruolo di madre (Fantina) e figlia (Cosetta) che l’attrice interpreta con una leggerezza e una eleganza che ben si armonizzano con le atmosfere rarefatte della pellicola. Mentre la sua Fantina, però, esangue e tisica, sembra uscita da un melodramma dell’Ottocento, la sua Cosetta, gli occhi grandi e la voce melodiosa, è una fanciulla romantica e sognatrice, lieve, morbida e fragile come una porcellana. Difetto che può essere nello stesso tempo una virtù, e può essere anche sfruttato con finalità espressive, il quasi impercettibile strabismo dell’attrice, se, nel caso di Fantina, riesce a esaltare la debolezza e l’infelicità del personaggio, nel caso di Cosetta la rende d’aspetto forse ancora più bello, fiabesco e fuori dal mondo di quanto già non lo sia.
Dopo aver dato vita, quindi, in Italia, a tutta una serie di eroine da melodramma, nel 1949, in tasca un contratto con la Fox, parte per gli Stati Uniti e, ribattezzata «Valentina Cortesa», interpreta un paio di film. Nel 1949, è Rica, una prostituta italiana, nel noir Thieves’ Highway (I corsari della strada) di Jules Dassin. Nel 1951, è Victoria Kowelska, una donna polacca sopravvissuta a un campo di concentramento ed emigrata in America, nel thriller The house on Telegraph Hill (Ho paura di lui) di Robert Wise. Arrivata a San Francisco, Victoria assume l’identità di una compagna di lager, ma non sopravvissuta, che era madre di un bambino da lei, anni prima, mandato a vivere negli Stati Uniti da ricchi zii: la protagonista sposerà il tutore del bambino (gli zii infatti sono ormai morti) e scoprirà che qualcuno intende ucciderla.
Nel 1952, insieme al marito Richard Basehart (da lei conosciuto sul set del film di Wise) e al figlio Jackie Basehart (nato nel 1951), torna in Italia dove, fra le altre cose, è Lulù nell’omonimo film (1953) di Fernando Cerchio tratto dal dramma di Carlo Bertolazzi, la prostituta Lisa nella Passeggiata (1953) di Renato Rascel, la prostituta Wally in Donne proibite (1953) di Giuseppe Amato e, nel 1954, la sorella del nevrotico impotente conte Vincenzo Torlato-Favrini (Rossano Brazzi) nel kolossal di Joseph Mankiewicz The barefoot contessa (La contessa scalza) con Ava Gardner e Humphrey Bogart. Quest’ultima è una parte piccola ma molto difficile da interpretare.
Non ancora trentenne, nerovestita e più asciutta del solito, Valentina Cortese è la contessa, vedova e sterile, Eleonora Torlato-Favrini: il fratello, un giorno, le presenta la donna che intende sposare, ovvero la giovane attrice spagnola, e oggetto del desiderio di mezzo mondo, Maria Vargas, e lei mostra di disapprovare fin da subito questa decisione. Lo spettatore, cui viene svelato il mistero che si nasconde dietro al personaggio di Vincenzo solo nel momento in cui anche Maria ne viene a conoscenza, ovvero all’inizio della loro prima notte di nozze, è portato a pensare che Eleonora sia contraria al matrimonio per motivi di gelosia nei confronti della bellissima, sana e giovane futura cognata, mentre lei ha un aspetto precocemente senile, dimesso, antifemminile e non molto sano. «È troppo innamorata di te», dice al fratello per convincerlo a non sposare Maria: e poi la osserva con una sfumatura che lo spettatore, inizialmente, crede sia di invidia o di biasimo per il fatto che in lei non scorre un’unica goccia di sangue blu. Solo alla fine, si scopre, invece, che Eleonora è contraria alle nozze perché sa che il fratello, per una ferita di guerra, è del tutto impotente e intende sposare Maria solo per vanità, per poterla vedere fra i ritratti di famiglia, di cui è ossessionato, in qualità di ultima contessa Torlato-Favrini: quindi, in realtà, lei non vuole che Maria sia condannata a soffrire.
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