Dotata di un talento naturale per la recitazione, esordisce, quindicenne, con Guido Salvini nel suo film Orizzonte dipinto (1941) e, insieme a ragazze come Alida Valli, Carla Del Poggio, Iraselma Dilian e Adriana Benetti, diventa in breve una delle più amate attrici del cinema di regime: non appartiene tuttavia alla categoria delle dive sexy e dal fascino un po’ dark come Paola Barbara o Clara Calamai ma a quella delle adolescenti “acqua e sapone” che popolano i cosiddetti film dei “telefoni bianchi”. A differenza delle sue giovani colleghe, però, che si fanno quasi tutte emblema di una femminilità solare, irrequieta e intraprendente, Valentina, anche per via di una bellezza non convenzionale, di un aspetto esile e quasi esangue e di un leggerissimo strabismo che rende fra l’altro molto arduo il compito dei direttori della fotografia, ha in sé una vena più malinconica, più dolce, che la porta ad essere chiamata spesso per interpretare personaggi di fanciulle che soffrono (è il caso, per esempio, nel 1942, di Primo amore di Carmine Gallone e, nel 1943, di Orizzonte di sangue di Gennaro Righelli).
Per maestri, nei primi anni di professione, ha registi come Carlo Campogalliani, Carmine Gallone, Gennaro Righelli, Gianni Franciolini e soprattutto Alessandro Blasetti, che ne intuisce le possibilità e la dirige in due film (La cena delle beffe nel 1941 e, nel 1945, Nessuno torna indietro, tratto da un romanzo di Alba De Cèspedes) e anche in due spettacoli teatrali entrambi messi in scena nell’aprile del 1945 (Il tempo e la famiglia Conway di John Boynton Priestley e Ma non è una cosa seria di Luigi Pirandello). Nella Cena delle beffe, che la vede recitare appena sedicenne, dà una prova talmente notevole di sensibilità, naturalezza e mimetismo da impressionare molto favorevolmente il regista. La parte che si vede affidare è quella di Lisabetta, ovvero una fanciulla da sempre segretamente innamorata di Neri Chiaramantesi (Amedeo Nazzari), nobile e prepotente fiorentino che, per beffa, il nemico Giannetto Malespini (Osvaldo Valenti), ha pubblicamente dichiarato vittima di una forma di pazzia. Lisabetta va a trovare Neri mentre è incatenato e da tutti ritenuto pazzo, si convince della sua sanità mentale, riesce a trovare uno stratagemma per far sì che venga liberato ma, dopo poche ore passate a casa insieme a lui, si accorge che è scappato per andare da un’altra donna (Ginevra) e quindi verso la propria rovina.
Nei panni di Lisabetta, la Cortese riesce a esibirsi, con molta misura e senza mai ritrovarsi sopra o sotto le righe, in un intero campionario di toni ed espressioni. All’inizio, quando parla a Neri credendolo pazzo, è preda di una specie di dolce e adolescenziale delirio da innamorata e la sua voce è tutta un sussurro: dopo essersi convinta, però, che è in possesso di tutte le sue facoltà mentali e dopo un solo attimo di turbamento, smette d’un tratto di dichiararsi innamorata e passa a dargli una prova pratica di amore. Gli consiglia, infatti, di fingersi pazzo sul serio. Mentre lui, così, di fronte a Giannetto e ad altri finge d’essere impazzito sul serio, lo asseconda e, nello stesso tempo, ha una speranza e un timore: spera che gli altri credano alla messinscena e teme che Neri si tradisca. Poi, se lo porta a casa, si abbandona di nuovo e del tutto al sentimento, si addormenta e, quando si accorge che lui è fuggito per andare da Ginevra, si lascia infine andare alla disperazione. Blasetti è un regista che poco spazio lascia all’iniziativa degli attori, ma la Cortese recita comunque con molta semplice e fresca spontaneità e offre una interpretazione più che convincente del suo personaggio.
Nel 1938, anno dell’emanazione della cosiddetta «legge Alfieri», il regime fascista introduce il monopolio del cinema ed estromette dal mercato le majors americane: d’un tratto, così, il pubblico italiano si trova privato delle amate pellicole statunitensi. Per farne sentire meno la mancanza, i registi italiani si esibiscono in una vera e propria iperproduzione in virtù della quale attrici come la Cortese hanno modo di apparire in moltissimi film di vario genere: «tutto questo - dirà lei stessa - è servito per farsi le ossa e io ricordo quegli anni, anche sapendo di aver fatto delle cose spesso molto mediocri, come un periodo che mi ha formata. È stata una scuola straordinaria» (Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta, Roma, Bulzoni, 1979, 2 voll. / I, p. 385).
Di film - ammetterà, una trentina d’anni dopo, l’attrice in una intervista - «io non è che ne abbia fatti di molto belli, poi sullo schermo mi detestavo [...]. Qualche cosa forse c’era perché avevano scritto degli articoli piuttosto interessanti su di me. Persone molto quotate, giornalisti molto quotati. My God! Io non lo so; o erano impazziti oppure veeramente dovevo avere del talento, dietro tutte quelle moine, mossette, mossucce. Forse c’era qualche cosa di vero, una corda che vibrava in un certo modo c’era fin da allora» (ivi, p. 375).
|