Secondo Giorgio Zampa, l’attrice, nei panni di Giovanna Dark, «ha forse offerto la prestazione migliore della sua carriera. Il compito era arduo, a volte disperato; bisognava esprimere l’ambiguità del personaggio senza cadere nella semplicità eccessiva, nel fanatismo religioso, nella credulità colpevole: la recitazione epica presentava difficoltà particolari per i salti di tensione del testo e per alcune sue incongruenze. La Cortese [...] ha disegnato una figura che probabilmente farà storia, nel capitolo delle rappresentazioni brechtiane» (Giorgio Zampa, Santa Giovanna dei macelli, in «Il Dramma», 1 luglio 1970). Come scrive Mosca, è infatti «riuscita a insinuare fra le pieghe dell’epico la sua commovente fragilità, i suoi celesti abbandoni, la sua umanità fatta di veli portati dal vento e di quella primavera venata d’autunno che potete leggere nei suoi occhi e sui suoi polsi. È stata non applaudita, ma presa in trionfo» (Mosca, Il re della carne, in «Corriere d’informazione», 6-7 luglio 1970). Valentina Cortese, dice poi Renzo Tian, ha saputo conservare «la sua grande carica emotiva e quella sua inconfondibile fragilità pur calandole in una recitazione salmodiata e distaccata, come di chi pronunci cose che non lo riguardano» (Renzo Tian, Favola politica degli anni Trenta, in «Il Messaggero», 8 luglio 1970).
Umiliando, dunque, «con magistrale autorevolezza, il suo temperamento naturalistico» (Carlo Maria Pensa, Larve e soldati alla ribalta, in «Gente», 20 luglio 1970), l’attrice si mette al servizio di Giovanna, ovvero di un «personaggio sforzato, retorico, del quale una recitazione sentimentale rivelerebbe troppo il vuoto» (Mosca, Valentina dei miracoli, in «Corriere d’informazione», 4 dicembre 1970): è «necessario, perciò, il rigore epico al quale Strehler s’è strettamente attenuto, lasciando però all’arte di Valentina Cortese gli spiragli di libertà necessari per compiere il miracolo di dare parvenza di verità al personaggio più artificioso che si possa immaginare. I miracoli di questa struggente attrice simile, nella sua fragilità che nasconde tanta forza, a un mucchietto di ramoscelli che diano lo stesso fuoco d’un albero intero e ben stagionato. Valentina si dona tutta, si consuma tutta, si sacrifica tutta. Sembra prodigioso che esca viva da fatiche, da impeti, da abbandoni apparentemente tanto superiori alle sue forze. Ma recita con l’anima, e se il corpo è fragile l’anima è una fiamma inesauribile» (ibidem).
Nei primi anni Settanta, oltre a essere la demoniaca Lulu nell’omonimo dramma di Franz Wedekind messo in scena da Patrice Chéreau al Piccolo nel febbraio del 1972, è ancora alle prese col cinema di genere (lavora, per esempio, con Lucio Fulci e Fernando Di Leo) e un po’ anche con quello di autori come Mauro Bolognini (Imputazione di omicidio per uno studente, 1972), Franco Zeffirelli (in Fratello Sole, Sorella Luna, del 1972, è la madre di Francesco d’Assisi), Joseph Losey (L’assassinio di Trotsky, 1972) e soprattutto François Truffaut, che nel 1973, nel suo capolavoro di metacinema La nuit américaine (Effetto notte), le confeziona su misura il personaggio dell’attrice Severine, fragile di nervi e sempre attaccata alla bottiglia, costretta a lavorare per pagare le cure al figlio gravemente malato di cui però non parla mai: per l’interpretazione di questa grande ex diva italiana dal glorioso passato, alla continua ricerca di consensi e affetto, espansiva e logorroica, piena di talento, vezzi e seri problemi personali, la Cortese, che qui cesella un vero e proprio gioiello di recitazione, e riesce a non andare mai sopra le righe pur dando vita a un personaggio sopra le righe, offre un ritratto di se stessa sia come donna che come artista (l’identificazione fra lei e Severine, fra l’altro, è cercata e voluta dallo stesso Truffaut), e nel 1974 viene candidata all’Oscar come migliore attrice non protagonista.
Severine è una attrice che, nel film Je vous présente Pamela, la cui lavorazione è descritta in La nuit américaine, recita la parte della madre di un ragazzo che torna a casa per presentare la moglie ai genitori: il padre del ragazzo si innamora della giovane nuora, scappa con lei e viene infine ucciso dal figlio. Una sequenza in particolare vede coinvolta la Cortese ed è memorabile: Severine deve girare, in presa diretta, una scena in cui sta discutendo con l’attore che fa suo marito, ma la prima volta non ricorda la battuta iniziale; la seconda volta dovrebbe dire il nome di un personaggio del film nel film e dice invece il nome dell’attrice che lo interpreta; poi si fa scrivere le battute su dei foglietti di carta appesi alle pareti ma la terza volta, alla fine della scena, apre un armadio a muro invece di una porta; la quarta volta fa lo stesso errore e si mette a piangere, comincia a parlare in italiano e in inglese, abbraccia e bacia l’attrezzista; la quinta volta recita in stato di lieve alterazione ma in modo corretto e alla fine apre di nuovo la porta sbagliata; quindi si rimette a piangere, è tutta confusa e il regista manda via un po’ di gente della troupe, la sesta volta infine scoppia in lacrime quasi subito e si appoggia alla parete dove è attaccato il foglietto con sopra scritte le sue battute: il regista interrompe la lavorazione, la invita a calmarsi, lei dice che le fa male la parrucca, se la leva, parla in italiano, chiede il suo foulard e abbraccia l’attore che nel film interpreta suo marito.
Si tratta di una sequenza (che dura poco meno di otto minuti) completamente basata su una graduale climax e, come in tutte le sequenze di questo tipo, il finale (che in questo caso è la crisi di Severine) viene annunciato fin da subito (dato che l’attrice, prima di iniziare a girare, beve ed è in uno stato di lieve euforia): via via che i ciak si susseguono l’un l’altro, la tensione sale nella protagonista, come nella troupe che la circonda e nello spettatore, la scena girata presenta incrinature sempre peggiori, Severine sta sempre peggio, confonde la realtà e la finzione (dopo il quinto ciak, si lamenta perché la ragazza che, nella scena, fa la cameriera è anche la costumista e questo la confonde), mescola le lingue (all’inizio parla solo francese, poi anche un po’ di inglese e alla fine in italiano) e reagisce in modi sempre più drammatici (prima si prende in giro, poi si rimprovera e beve, e dal quarto ciak al sesto si assiste alla fenomenologia di una vera e propria crisi di nervi). La Cortese, tuttavia, cui fra l’altro Truffaut concede molta libertà dato che la lascia libera di improvvisare, riesce a non essere mai eccessiva, a rappresentare il crollo nervoso di una persona, in modo commovente e naturale, come se si trattasse di un teorema di matematica dove tutto è al posto giusto, niente di più e niente di meno.
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