L’operazione, dunque, che Truffaut compie nella Nuit américaine con la Cortese è più o meno analoga a quella che, poco più di una ventina di anni prima, Luchino Visconti aveva compiuto con Anna Magnani in Bellissima (1951): in entrambi i film, infatti, in conformità col mutare dei luoghi (da Roma a Nizza), dei tempi (dal dopoguerra agli anni Settanta) e del tipo di cinema (narrativo l’uno e metanarrativo l’altro), viene proposta una diva, cui peraltro non vengono lasciate battute da imparare a memoria ma situazioni da imbastire, che recita la parte di una diva. Lombarda, presenza quasi fissa nei melodrammi d’anteguerra, i modi e uno stile liberty, nostalgica della bella époque e poco neorealista, la Cortese è una autentica anti-Magnani e quella di Severine è la sua ultima grande interpretazione cinematografica, fra l’altro offerta in uno dei momenti più difficili della propria vita, ovvero quello della fine del lungo rapporto con Giorgio Strehler.
Il 1974 è per lei un anno di gioie e di delusioni: viene infatti nominata all’Oscar per il ruolo di Severine ma le viene preferita Ingrid Bergman (che lo vince per il personaggio di Greta in Murder on the Orient Express) e viene chiamata da Strehler per essere Liuba nella sua regia del Giardino dei ciliegi di Anton Čechov. Accetta di dare vita a Liuba ma, durante le prove dello spettacolo, soffre troppo e decide di non voler lavorare mai più col vecchio regista e compagno, che il Giardino lo dedica a lei e lo mette in scena per lei ma che non riesce a rendersi conto, come donna, di farla stare male.
A proposito di Liuba, in una lettera spedita alla Cortese alla fine delle prove, Strehler scrive: «ho costruito, assai prima di uno spettacolo, assai prima di un testo, una figura umana che in parte ti corrisponde, in parte ci corrisponde, in parte no, perché è più grande probabilmente di noi, una figura umana che tu, alle prime prove, hai violentemente rappresentato con una umanità, una coerenza di sentimenti, una pienezza di arte da sbalordire [...]. Ci sono state ore in cui ti ho seguita e amata con un tale abbandono, con una tale ammirazione quale mai ho provato nella mia vita. Ed ecco che qualcosa improvvisamente si è spezzato in te e tra noi, al massimo della parabola ascendente, mentre tu stavi per fare forse la cosa più bella e compiuta che io ho visto a teatro, ecco che ti sei fermata e hai cominciato a scendere. Non ti ho ritrovata più intera. Ti ho ritrovata qua e là in certi toni, in certi momenti. Non in una continuità incredibile, in una violenza di amore e poesia fatta di dolore, di infanzia, di incredulità, di abbandono, di incoerenza anche. Quello che resta è tanto [...]. Ma non grande come era, non grande come puoi essere, non grande come io ero riuscito a costruirti. Questo il mio sordo rimpianto, questo il mio rimprovero. E mi domando cosa c’è stato, dopo quelle lacerazioni positive, che ci ha nuovamente divisi. Sì, divisi, perché in quei momenti eravamo insieme, come forse non lo siamo stati mai, per lo meno in questi ultimi anni. Qualcosa che mi è sfuggito» (Giorgio Strehler, Lettera a Valentina Cortese, 1974, in Archivio Multimediale del Piccolo Teatro di Milano).
Quello che Strehler desidera è, in definitiva, che lei sublimi il suo dolore privato nell’arte, rendendola perciò il più possibile viva, umana, vibrante, personale. È, tuttavia, nel fatto di pensare che lei ritenga l’arte più importante della vita, che lui sbaglia: «Liuba era e può essere, se tu [...] spezzi di nuovo il tuo involucro di lacrime e di pena privata per proiettarla nella tua arte, una straordinaria creazione d’amore di due esseri che saranno sempre una cosa ineguagliabile l’uno per l’altro, fino alla fine», le scrive sempre nella stessa lettera (ivi). «Liuba - continua - è il nostro bene di ieri e di oggi, Liuba è la prova viva di ciò che vali umanamente e di ciò che ci possiamo dare sempre. [...] Ma occorre che succeda qualcosa, qualcosa che non so indicarti [...]. Allora Liuba Andreievna ritornerà a essere una grande figura d’amore ricca di altro amore, il nostro, oltre quello di cui l’ha riempita l’autore, ritornerà a essere qualche altra cosa dal teatro: brandello di vita e di anima, fuoco incandescente e perenne, suono incontrollabile nella sua vibrazione? Non solo teatro, no, Valentina, assai di più o meno, non so. Altra cosa. Quella che mi aveva, ci aveva travolti per settimane. Si tratta di un problema d’arte ma prima ancora di un problema umano. [...] Questo il punto fondamentale. Come riuscire a comunicarti quello che provo e sento: l’ammirazione che ho per te e l’accusa che ti faccio sordamente di non essere ancora di più perché puoi essere mille volte di più?» (ivi).
Il problema è che Strehler non si rende conto che la Cortese potrebbe essere «mille volte di più» se solo stesse ancora insieme a lui: senza prendere in considerazione il fatto che lavorargli al fianco la fa stare male come donna, perciò, vorrebbe che lei riversasse una sublimazione delle sue sofferenze personali in Liuba ma, mentre lui riesce a separare bene la vita dall’arte, lei non ci riesce, non riesce a stargli accanto soltanto come attrice, e dopo il Giardino preferisce evitare di avere contatti con lui sia come regista che come uomo. Per quanto riguarda l’attività teatrale, l’interpretazione di Liuba è il suo canto del cigno. Secondo Gerardo Guerrieri, la Liuba della Cortese è «una figura materna non giudicata, un sogno ancestrale, una bambina-madre-amante, non vista come assurda ma con indulgente sorriso, appassionata e distratta, vivissima: senza età, dice di lei Strehler, vede gli altri invecchiare, la donna bambola: una mai così vera Valentina Cortese» (Gerardo Guerrieri, Nasce dal bianco il vero giardino, in «Il Giorno», 23 maggio 1974).
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