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La redazione è a disposizione dei titolari di eventuali diritti d'autore per discutere i riconoscimenti del caso.

 

 


 

«Archivio Multimediale degli Attori Italiani», Firenze, Firenze  University Press, 2012.
eISBN: 978-88-6655-234-5
© Firenze University Press 2012

Attore > cinema, teatro
NomeDina
CognomeGalli
Data/luogo nascita06 dicembre 1877 Milano
Data/luogo morte04 marzo 1951 Roma
Nome/i d'arteDina Galli
Altri nomiGalli, Clotilde Annamaria (nome anagrafico)
  
AutoreEmanuela Agostini (data inserimento: 16/03/2009)
Dina Galli
 

Sintesi | Biografia| Famiglia| Formazione| Testo completo

 

Interpretazioni/Stile

Corpo minuto e magro, viso aguzzo, occhi grandi e prominenti (che Silvio d’Amico paragonò a due uova al tegame), faccia ossuta, bocca allungata con una costante espressione di stupore, voce non troppo robusta, Dina Galli colpisce immediatamente lo spettatore per il particolare aspetto fisico di cui la “natura” l’ha dotata. La sua recitazione valorizza quelli che in un’aspirante prima attrice del teatro del primo Novecento dovevano apparire incontestabilmente come difetti. Né bella né procace per convincere il pubblico e primeggiare Dina Galli è costretta a inventare una via del tutto originale. I “difetti” fisici che avrebbero potuto danneggiare la sua ascesa giovanile divengono i suoi punti di forza, la sua “maschera”. Le mani lunghe e ossute sono messe in maggior rilievo dalla gesticolazione continua. L’eccessiva magrezza è pretesto per continue allusioni autoironiche. Un esempio aneddotico in proposito è quello che ricorda una sua improvvisata esclamazione, «Per carità, amico, non parliamo degli assenti...», usata per interrompere nel corso di uno spettacolo il primo attore intento a lodare i suoi seni (cfr. Eugenio Bertuetti, Ritratti quasi veri, Torino, Stabilimento Grafico Armando Avezzano, 1937, p. 65).

Dopo gli anni dell’apprendistato con Edoardo Ferravilla, il momento cruciale per la futura carriera di Dina Galli si colloca all’apertura del nuovo secolo, nel 1900, con la scrittura nella Talli-Gramatica-Calabresi. È infatti il rigoroso capocomico Virgilio Talli, forse in parte deluso dall’esordio della Galli in Dionisa di Alexandre Dumas fils, ad intuire l’eccezionale valore potenziale della sua prima attrice giovane in un repertorio adatto alle sue innate corde comiche. L’ascesa di Dina Galli, indirizzata da Talli verso le pochades, è ulteriormente favorita dall’atteggiamento intransigente della prima attrice Irma Gramatica che si rifiuta di interpretare commediole leggere ritenute inadatte al suo temperamento artistico.

La previsione di Talli è confermata dalla consacrazione di Dina Galli in Loute di Pierre Veber. La sua originalità nel panorama teatrale italiano è però evidenziata soprattutto da La dame de Chez Maxim di Georges Feydeau, banco di prova per il confronto con le attrice già affermate. La versione della Galli si distingue da tutte le altre per la direzione intrapresa. Alla malizia piccante della Crevette di Virginia Reiter e Teresa Mariani, oppone una monelleria ingenua che spoglia di volgarità, ma anche di tensione erotica, gli intrecci ammiccanti. Sarà questa la cifra stilistica di tutte le successive interpretazioni di Dina Galli che cristallizza la sua immagine in quella di eterna bambina.

La cospicua parte del repetorio in cui Dina Galli si cimenta con successo in giovinezza appartiene all’ambito pochadistico. Dina Galli interpreta un consistente elenco di pièces “a orologeria” di importazione francese spogliando le disinibite protagoniste di ogni prorompenza femminile. Lo sguardo ironico, ovvero distaccato, dell’interprete verso le proprie creazioni smaschera continuamente il gioco teatrale. In questo modo l’attrice conferisce ai testi d’importazione un aspetto familiarmente italiano: «Dina Galli ha avuto naturalmente il privilegio di interpretare, e quindi di rivelare, il pariginismo di una casalinga di Milano; il desiderio di avventurierismo di chi è immancabilmente destinato a rimanere provinciale» (Luigi Maria Personé, Il teatro italiano della “Belle époque, Firenze, Olschki, 1972, p. 354). 

La specializzazione nel genere della commedia è rimarcato dal ruolo assunto da Dina Galli, quello di “prima attrice comica”, pernio di formazioni il cui repertorio esclude il dramma “serio” di ascendenza dumasiana, privilegia la commedia leggera, ma  include (in misura crescente dopo la separazione da Sichel) anche le più importanti commedie sentimentali (come Zazà di Pierre Berton e Charles Simon) in cui Dina Galli conduce gli spettatori dal riso alle lacrime. Una prima interpretazione particolarmente incisiva di questo genere è quella in Friquet, in cui Dina Galli veste i panni di una ragazzina del circo, una «bambina sedicenne, magra, patita e quasi lacera» (Lucio Ridenti, La vita gaia di Dina Galli, Milano, Corbaccio, 1929, p. 106). Il finale tragico che chiude le gags della monella ribelle porta gli spettatori alla commozione: «Dina Galli, sulla scena, [...] dava ai suoi monosillabi quella rassegnata disperazione necessaria a Friquet, creatura umile e semplice, che si uccide per amore, e che morendo felice di essersi uccisa, vede per la prima volta l’irraggiungibile ed inconsapevole uomo del suo sogno, giunto fino a lei per chiuderle gli occhi» (ivi, p. 108). 

La necessità di personalizzare il repertorio spinge Dina Galli a incoraggiare gli autori teatrali a scrivere per lei. Una felice collaborazione è quella con Dario Niccodemi che, indirizzandole la commedia Scampolo, le offre finalmente una valida alternativa alla drammaturgia francese. In Scampolo Dina Galli trova una parte effettivamente corrispondente al suo temperamento di eterna bambina vivace e allegra, ma anche incline al sentimentalismo. Oltre a Niccodemi altri autori, tra cui Giuseppe Adami e Arnaldo Fraccaroli, contribuiranno a definire ancora più fortemente la sua personalità artistica dandole modo di incarnare sulle scene personaggi femminili perfettamente aderenti alle sue qualità, ragazzine ingenue e furbe spesso dai tratti quasi androgini. Tra questi, pare piuttosto significativo anche quello della protagonista di Jack Broder di Gioacchino Forzano: una stracciona vestita da ragazzo e da tutti ritenuta un uomo che alla fine viene scoperta da un produttore cinematografico.

Con il sopraggiungere dell’età, il criterio di scelta delle parti deve essere sottoposto a ripensamento. La diatriba con Antonio Gandusio mette in rilievo che negli anni 1930-1931 l’attrice si trovava di fronte a un momento di passaggio nella sua carriera. Il conflitto tra i due capocomici nasce dalla volontà di entrambi di recitare nelle parti dei protagonisti. Secondo Gandusio, l’attrice si sarebbe dovuta piegare al ruolo di caratteristica: Gandusio percepiva che la collega, non più giovanissima, aveva difficoltà a rinnovare il repertorio, trovando parti adatte alla sua età e alla sua personalità artistica. L’ostinazione di Dina Galli a fare sempre e comunque la protagonista è descritta dal capocomico in questi termini: «in Diky vuol fare la giovane innamorata, nel Campanello d’allarme vuol fare la seconda donna mentre c’è una caratterista bellissima che ringiovanisce atto per atto. Invece Il signor conte, dove lei fa mirabilmente una macchietta zitellona, piace e si replica dappertutto, il che prova che avevo ragione io [...] Piace invece Alla moda, dove lei fa mia moglie, una donna di settanta anni» (Antonio Gandusio, Cinquant’anni di palcoscenico, Milano, Ceschina, 1959, pp. 131-132). Aggiunge ancora Gandusio: «Se avesse accettato le parti di caratterista e attrice madre, avrebbe rinnovato se stessa, e si sarebbero scritte commedia apposta per lei» (ivi, p. 133). Evidentemente il passaggio al ruolo di caratteristica nel consueto repertorio avrebbe costituito una retrocessione per la prima attrice comica che si sarebbe limitata a parti minori. Tuttavia l’indicazione di Gandusio mette in rilievo la necessità per Dina Galli di trovare nuove parte più consone alla sua età. 

Il cinema, cui Dina Galli si dedica (dopo due episodi all’epoca del muto nel 1914) soprattutto a partire dagli anni Trenta, raccoglie alcune interessanti testimonianze dello stile interpretativo dell’attrice in questa seconda fase della carriera. Quando nel 1933 si cimenta in Ninì Falpalà, trasposizione sul grande schermo di un suo passato successo, l’attrice ha già una lunga carriera alle spalle. La protagonista è un’artista del varietà ormai sfiorita che per farsi pubblicità simula un suicidio architettando un piano che viene però mandato all’aria dall’intromissione di un troppo zelante salvatore. Nel film, che non ebbe una particolare risonanza, Dina Galli si cimenta in una serie di gags che propongono l’ennesima variazione sui contrasti tra ingenuità e astuzia, furbizia e goffaggine, allegria e malinconia. In una sequenza particolarmente apprezzata la chanteuse affamata compensa con il cibo la carenza di affetto. Le direttive del regista Amleto Palermi, che impone all’attrice una gesticolazione misurata, limita però la verve istintiva dell’attrice.

Anche altre successive interpretazioni cinematografiche sono adattamenti dei precedenti successi teatrali della capocomica. Il cinema d’epoca fascista cristallizza un’immagine già piuttosto tarda dell’attrice che non è ormai più un’indomabile monella quanto un’irresistibile “zia”.  Alle “bambine” della prima parte della carriera seguono nella seconda direttamente donne “anziane” la cui femminilità è un ricordo. Così come in gioventù Dina Galli non aveva mai sottolineato gli accenti femminili, in vecchiaia interpreta ora “l’amica”, ora la vedova, ora la zitella, ma solo di rado ha un marito in scena: «la “libertà” sentimentale gioca a favore della sua aria da monella senza età, esaltando quell’aria indifesa che intenerisce» (Stefano Masi-Enrico Lancia, Stelle d’Italia, Roma, Gremese, 1994, vol. I, p. 793).

Tra scena e schermo, il maggiore successo dell’intera carriera di Dina Galli è quello in Felicita Colombo (1937) di Giuseppe Adami, in cui l’attrice torna a confrontarsi con la recitazione in milanese per tratteggiare il personaggio di un’arguta salumiera, la cui figlia sposa il rampollo di un conte impoverito, ma snob. I comportamenti artefatti degli aristocratici sono messi in ridicolo dalla lealtà e dalla naturalezza di Felicita, popolana di buon cuore. Il film di Mario Mattoli, raro esempio di prodotto dialettale in epoca fascita, segue di poco la straordinaria affermazione dello spettacolo. Il regista lascia all’interprete piena libertà di movimento. Il risultato, estremamente lusinghiero sia sotto il profilo artistico sia sul piano commericale, induce il produttore Capitani a investire nel suo seguito Nonna Felicita (1938). Stavolta Felicita è alle prese con un nipote che si è fatto abbindolare da una francesina a caccia di un marito ricco. Al fianco di Dina Galli, nella parte dell’amico fidato, Armando Falconi. La coppia Galli-Falconi si ripropone anche nei successivi film tra cui La zia smemorata (1941) di Ladislao Vajda (dove l’attrice, che aveva ormai più di sessantanni, interpreta il ruolo di una zia svampita e simpatica) e Il birichino di papà (1942) di Raffaello Matarazzo (in cui Dina Galli nei panni di una stizzosa nobildonna offre la parodia di un’interpretazione da prima attrice e madre).

Diva al teatro, dove si cimenta accolta da acclamazioni anche in alcune riviste e commedie musicali fino alla morte, Dina Galli si confronta episodicamente anche con la radio e continua a prendere parte a un non inconsistente numero di film dove però è limitata a particine di carattere confinate in camei. In Stasera niente di nuovo (1942) di Mario Mattoli ad esempio, figura solo in due brevi apparizioni in cui interpreta la parte della proprietaria di una casa da affittare. Come per offrire una “versione ridotta” di Felicita Colombo, il personaggio parla in milanese e scivola dal comico verso la commozione.

Complessivamente Dina Galli è un’attrice di indiscusso successo di pubblico. Una parte della critica la attacca severamente per la scelta di un repertorio più attento alle ragioni di botteghino che non a quelle dell’Arte. Primo tra tutti, il giovane Silvio d’Amico che però, nel necrologio dell’attrice scritto in età più matura, avrebbe rivisto la sua posizione giustificandola con l’eccessiva intransigenza della gioventù. Riportando l’opinione di chi nel passato aveva provato a convincerlo del contrario (tra cui una stupita Eleonora Duse che avrebbe esclamato: «ma se è la nostra migliore attrice!»), Silvio d’Amico giunge ad ammettere che nel genere della commedia leggera Dina Galli superava di gran lunga ogni interprete italiana o straniera.

Proprio l’attaccamento a quel “deplorevole” repertorio esclusivamente comico (e comico-sentimentale) costituisce a posteriori un elemento di grande interesse perchè assolutamente originale nel panorama teatrale italiano. Il riso, cura al mal di vivere (e all’orrore della guerra) acquista in Dina Galli una funzione terapeutica totalizzante. Secondo quanto affermato da Vito Pandolfi sarebbe stato anche strumento per ridicolizzare le meschinità del tempo: l’attrice «metteva in luce le debolezze, i tic, le finzioni dell’epoca sperando che gli spettatori dovessero un po’ vergognarsi di se stessi, proprio per saper resistere all’impulso della risata con cui affettuosamente li provocava» (Vito Pandolfi, Spettacolo del secolo, Pisa, Nistri-Lischi, 1953, pp. 238-239).

Se innovativa è la scelta di specializzarsi come prima attrice comica e originale il fondamento su cui basa il suo stile interpretativo (seppure non del tutto privo di possibili termini di paragone nella generazione precedente di attrici, in particolare in Pia Marchi), tradizionale è certamente il metodo “compositivo” adottato dalla capocomica per la produzione degli spettacoli. Antonio Gandusio (con un fine sottilmente denigratorio) metteva in luce la sua insofferenza alle prove: «Non è tanto facile affiatarsi con la Galli, proclive ad andar a soggetto, a non studiar le parti, a non voler far le prove e con una istintiva inclinazione a far la caricatura del personaggio che interpreta [...]. Però ha una comicità veramente superiore, sebbene dialettale, e molta verve» (Antonio Gandusio, Quarant’anni di palcoscenico, cit., pp. 116-117). 

La “colpa” è ammessa dalla stessa attrice in un brano in cui ben esplicita il procedimento da lei adottato che, secondo una tradizione secolare nel teatro italiano, parte dalla costruzione del “carattere”: «La dura fatica di provare è sempre stata contraria al mio temperamento. Il personaggio di una commedia vive in me subito dopo la prima lettura. Me lo elaboro mentalmente, me lo plasmo su misura durante il mio riposo fisico, sdraiata sul letto, in un continuo lavorio mentale. Le parole per me sono una cosa secondaria. L’importante è il carattere, lo spirito, la natura, l’essenza dell’interpretazione. Quando ci sono entrata fino in fondo, faccio quello che voglio io. Letta si e no un paio di volte la parte, poi le parole esatte me le dà il suggeritore, e [...] difficilmente tradisco il testo o improvviso. La mia pronta memoria mi assiste sempre, ch’è una meraviglia» (Giuseppe Adami, Dina Galli racconta..., Milano, Garzanti, 1943, p. 106).

 
Progettazione tecnica a cura di