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«Archivio Multimediale degli Attori Italiani», Firenze, Firenze University Press, 2012. eISBN: 978-88-6655-234-5 © Firenze University Press 2012
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Attore > cinema, teatro | Nome | Dina |  | Cognome | Galli |  | Data/luogo nascita | 06 dicembre 1877 Milano |  | Data/luogo morte | 04 marzo 1951 Roma |  | Nome/i d'arte | Dina Galli |  | Altri nomi | Galli, Clotilde Annamaria (nome anagrafico) |  | | |  | Autore | Emanuela Agostini (data inserimento: 16/03/2009) |  |
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Sintesi
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La più importante prima attrice comica del primo Novecento, esordisce nella compagnia dialettale di Edoardo Ferravilla e, dopo essere stata scoperta da Virgilio Talli, diviene capocomica di formazioni interamente dedicate al repertorio comico e comico-sentimentale.
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Biografia
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La data di nascita di Dina Galli è ricavata dal certificato di nascita. Nelle voci a lei dedicate nel dizionario di Nardo Leonelli e nell'Enciclopedia dello Spettacolo si indica come anno di nascita il 1875; il Dizionario Bibliografico degli Italiani e il Dizionario dello spettacolo del '900 riportano invece correttamente il 1877.
Figlia dell’attrice Armellina o Ermellina Nesti (a sua volta figlia di uno scrittore fiorentino) e di Giuseppe Galli (impresario teatrale figlio di Luigi Galli buffo comico), Dina Galli è avviata alle scene fin da bambina, quando dopo la morte del padre, la madre è scritturata nella Compagnia Olivieri. Nella biografia-intervista a Dina Galli di Giuseppe Adami non è citata questa esperienza, mentre è invece ricordata la permanenza nella Compagnia Ferdinando Caravati. In ogni caso, l’esordio artistico dell’attrice avviene in tenera età nelle formazioni in cui milita la madre, impiegata per brevi parti in italiano all’interno di spettacoli di prosa e d’operetta. Alcune biografie si soffermano in particolare sull’applaudita apparizione della bambina di soli cinque anni al Politeama di La Spezia in una commedia dal titolo Il primo dolore (o forse si confondono con il dramma omonimo di Carlo Fabricatore?). Questo episodio è però successivamente negato dall’attrice.
Con la madre, tra il 1888 e il 1889, Dina Galli recita nella compagnia di prosa e canto Armellina Nesti diretta da Arturo Merone. Nel 1890 Armellina Nesti è chiamata a sostituire la defunta Giuseppina Giovanelli in qualità di caratteristica della compagnia dialettale milanese diretta da Edoardo Ferravilla (la Ferravilla-Ivon-Giraud). Nei primi anni di permanenza di Armellina Nesti nella formazione milanese, Dina Galli non ha una vera e propria scrittura, ma partecipa occasionalmente agli spettacoli come comparsa. La sua crescente propensione alla recitazione (suggellata dall’applaudita esibizione in un numero di canto di una commedia-rivista intitolata Alla follia!) convince in seguito Edoardo Giraud e Ferravilla a ufficializzare la sua posizione ingaggiandola come generica (nelle sue biografie la si dice scritturata scherzosamente come Dittuttounpo’). Di particolare significato è la sua presenza in El maestrin sentimental una scena comico-musicale scritta e interpretata da Ferravilla con grande successo.
L’apprendistato con Ferravilla si conclude nel 1900 quando Dina Galli è accolta nella Talli-Gramatica-Calabresi come prima attrice giovane per il triennio comico successivo. L’esordio avviene a Venezia nella parte di Marta in Denise di Alexandre Dumas fils. Virgilio Talli, non del tutto convinto dai suoi risultati nel repertorio serio, riconosce invece la sua eccellenza in quello pochadistico e, limitatamente a questo genere, le affida in breve tempo anche parti di primattrice.
La consacrazione dell’attrice avviene nel 1902 al Teatro Manzoni di Milano in Loute di Pierre Veber. Altra memorabile prova è quella in La dame de Chez Maxim di Georges Feydeau all’Arena di Verona. Dina Galli assume i panni della protagonista Crevette a seguito del rifiuto di Irma Gramatica, prima attrice della compagnia, di cimentarsi in una parte non adatta alle sue corde drammatiche e di dubbio decoro. L’interpretazione della Galli si distingue da quella delle più applaudite attrici del momento: alla femminilità trionfante della Crevette di Virginia Reiter e di Teresa Mariani si sostituisce una monelleria ingenua. Il pubblico, colpito dall’originalità della sua versione, le tributa continue acclamazioni.
La notorietà raggiunta da Dina Galli è “siglata” nel 1903 dalla scrittura nella Compagnia di Claudio Leigheb, capocomico che eccelleva quale brillante (e che, tra l’altro, aveva collaborato con Virginia Reiter dal 1894 al 1900 contribuendo a valorizzarne le corde comiche). La necessità di assistere la madre inferma non le consente di rispettare gli accordi. Al decesso della madre, avvenuto nel febbraio del 1903, segue la gravidanza e la nascita della figlia Rossana. La morte di Leigheb nel novembre di quello stesso anno, impedisce la prosecuzione di ogni eventuale progetto artistico. Al momento di rimettersi al lavoro, nel 1904, Dina Galli decide allora di fondare una compagnia propria. In società con Pietro Tarra rileva in blocco la compagnia di Teresa Mariani che si era ritirata dal capocomicato (acquistandone anche le scenografie e appropriandosi dei contratti nelle diverse “piazze”) e ne affida la direzione ad Andrea Beltramo. Diviene in questo modo il fulcro carismatico di un complesso in cui militano tra gli altri Odoardo Bonafini, Salvatore Rizzotto e Remo Lotti. L’esperienza del capocomicato solitario si ripete ancora nell’anno comico 1905-1906.
Su consiglio di Adolfo Re Riccardi nel 1906-1907 si costituisce la Sichel-Galli-Guasti-Ciarli-Bracci, detta anche “la compagnia dei cinque”. Il gruppo, ai cui vertici si collocano (oltre alla Galli) Amerigo Guasti (che si rivelerà il più fedele collaboratore dell’attrice), Giuseppe Sichel, Stanislao Ciarli e Ignazio Bracci, costituisce il più significativo caso di compagnia d’insieme del teatro del primo Novecento italiano. A questo proposito (riferendosi in verità alla posteriore Galli-Guasti-Bracci) Antonio Gramsci afferma che è l’unica compagnia italiana a «meritare veramente questo nome, poiché presenta organicità di ruoli e graduazioni di capacità, che pur lasciando agio ai princeps di mettere in rilievo le loro doti speciali, non nuoce all’insieme e dà risalto anche alle parti secondarie» (Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori riuniti, 2000, p. 281).
Con questa formazione Dina Galli allestisce tutte le principali pochades del momento: da L’albergo del libero scambio di Georges Feydeau a Le pillole di Ercole di Maurice Hennequin e Paul Bilhaud, da La prima notte di Arthur Wing Pinero, a La presidentessa e Niente di dazio di Hennequin e Pierre Veber, insieme a qualche titolo di commedia comico-sentimentale come La sfumatura di Francis De Croisett, Friquet di Gyp e Willy e Zazà di Pierre Berton e Charles Simon, in cui l’allegria del personaggio si fonde a note di dolente malinconia. La scelta di preferire, anche in vista del botteghino, l’allestimento di pochades salaci a commedie sentimentali dalle quali Dina Galli si sente maggiormente gratificata è dovuta soprattutto alla volontà di Sichel. La divergenza di opinioni rispetto al repertorio da privilegiare provoca la fuoriscita dell’attore dalla compagnia nel 1909.
Dopo la separazione da Sichel, la Galli-Guasti-Ciarli-Bracci (che non rinuncia affatto in modo totale alle pochades più in voga) si incentra ancora più fortemente sulla personalità della prima attrice. Secondo una via eccezionale nel panorama teatrale italiano, Dina Galli rifiuta il repertorio serio privilegiando quello comico. Ai testi più leggeri si aggiungono anche un numero progressivamente più consistente di commedie sentimentali in cui l’attrice dà prova di sapere condurre gli spettatori dal riso alle lacrime. Alla ricerca di copioni che, pur non rinunciando al brio delle commedie di stampo francese, mettano in luce interamente il suo temperamento artistico, Dina Galli collabora anche con molti autori italiani. Un incontro particolarmente felice è in questi anni quello con la drammaturgia di Giuseppe Adami, di cui mette in scena La capanna e il suo cuore e Pierrot innamorato, e di Arnaldo Fraccaroli di cui allestisce La foglia di fico.
La risposta del pubblico è costante. Dina Galli, ormai comunemente indicata semplicemente come “la Dina”, è una beniamina delle platee. Nel 1914 esordisce nel cinema nei film muti L’ammiraglia e La monella diretti da Nino Oxilia. A questo secondo film prendono parte tutti i vertici della compagnia teatrale: il cinema tenta di far fruttare su larga scala un riconosciuto fenomeno teatrale, e al tempo stesso la formazione utilizza un nuovo canale per rafforzare la propria immagine.
Nel 1914 Ciarli muore. Il 3 dicembre 1915 la Galli-Guasti-Bracci propone al Teatro Olimpia di Milano Scampolo di Dario Niccodemi, un testo appositamente scritto per sua prima attrice. L’interprete trionfa in una parte che le calza perfettamente e che finalmente le offre un’alternativa alle cocottes delle pochades francesi. La protagonista infatti è vivace e allegra, incline al sentimento, e mai maliziosa e volgare. La fama della Galli, irrobustita anche da questa interpretazione, incrementa notevolmente. La richiesta da parte dei Savoia di recitare a Corte insieme a Guasti in Pace in famiglia di Georges Courteline corona definitivamente la sua ascesa.
Il coinvolgimento dell’Italia nel primo conflitto mondiale rallenta l’attività teatrale della penisola. Durante gli anni di guerra, Dina Galli si cimenta come burattinaia per rallegrare i soldati italiani feriti negli ospedali, portando in giro il burattino Fasulein creato dai bolognesi fratelli Lupi. Sempre negli ospedali si esibisce accompagnata da Guasti alla chitarra recitando La vispa Teresa di Trilussa e altre filastrocche.
Al termine della guerra l’attività della compagnia riprende con regolarità. Dal 1921, a seguito del ritiro di Bracci, Dina Galli continua a collaborare con il solo Amerigo Guasti. Consapevole del primato della collega, Guasti filtra la scelta del repertorio interamente sulle sue doti. Alle pochades d’importazione si aggiungono molti testi italiani di cui una parte espressamente scritti per lei (tra questi Madonna Oretta e Le campane di S. Lucio di Gioacchino Forzano, Chiomadoro di Arnaldo Fraccaroli, La maestrina di Dario Niccodemi). Tra le opere d’importazione compaiono in cartellone La monella di Pierre Veber, Divorziamo! di Victorien Sardou, L’ottava moglie di Barbablù e Banco! di Alfred Savoir, Occupati di Amelia di Georges Feydeau, Florette e Patapon di Maurice Hennequin e Pierre Veber, Il re di Emmanuel Arène, Gaston Arman de Cavaillet e Robert de Flers. Una grande interpretazione è quella in Biraghin di Arnaldo Fraccaroli, cui seguono gli allestimenti di altri testi italiani come Il dono del mattino di Gioacchino Forzano, L’onda e lo scoglio di Alfredo Vanni, La signorina dalle camelie di Piero Mazzolotti, Baldoria di Arnaldo Fraccaroli.
A seguito della morte di Guasti, nel 1926, Dina Galli prende un periodo di riposo nella sua casa di Roma e in quella di Viareggio. Torna alla scene con una formazione finanziata dalla Società Theatralia di Gallieno Sinimberghi, Domenico Cimato e Arnaldo Lupi, con primo attore Enzo Biliotti. Dall’anno comico successivo (1927-1928) fino al 1929 la direzione della compagnia è assunta da Ernesto Ferrero. La principale novità proposta dalla Galli sotto la sua guida è Ginevra degli Almieri di Gioacchino Forzano. Nel repertorio si segnala anche Corallina, fanciulla d’ogni tempo di Arnaldo Fraccaroli. Nel 1928-1929 Luigi Cimara sostituisce Biliotti. Nel marzo 1929 la Galli interpreta nuovamente un testo di Gioacchino Forzano, Jack Broder, la cui parte principale, una stracciona da tutti scambiata per un ragazzo e infine scoperta da un produttore cinematografico, si adatta perfettamente alle sue corde. Nell’aprile 1929 debutta inoltre in una commedia musicale di Guido Cantini, Locanda alla luna.
Nel 1930 si associa a Antonio Gandusio: la collaborazione tra i due attori comici crea molta attesa nel pubblico, ma il continuo contrasto tra le due forti personalità e le difficoltà economiche della Società Sinimberghi cui la compagnia è legata decretano lo scioglimento del sodalizio al termine di un solo anno.
Nel 1931-1932 la capocomica si lega a Nino Besozzi e Enrico Viarisio. Nel 1932-1933 Nino Besozzi, impegnato in produzioni cinematografiche, è sostituito da Augusto Marcacci. Tra le importati novità messe in scena La piccola Tallien di Giuseppe Adami al Teatro dei Fiorentini di Napoli.
Un secondo tentativo di collaborazione con Gandusio nel 1933-1934 conferma l’incompatibilità della coppia. Antonio Gandusio preme infatti affinché Dina Galli abbracci il ruolo di caratteristica. L’attrice invece non vuole affatto rinunciare al suo primato. Il fallimento della Banca Nemo di Louis Verneuil ad esempio, secondo Gandusio, è motivato dall’ostinazione di Dina Galli a interpretare una parte non più adatta a lei. Le continue tensioni tra i capocomici non impediscono tuttavia alla formazione di ottenere una buona risposta dal pubblico. Tra le novità La barca dei comici di Luigi Bonelli, Alla moda di Dino Falconi e Oreste Biancoli, Milioni di Arnaldo Fraccaroli, e La rivincita delle mogli di Gino Valori.
Il 1933 segna anche il ritorno della Galli al cinema dopo le apparizioni all’epoca del muto. Sotto la direzione di Amleto Palermi, l’attrice trasferisce sullo schermo una sua importante interpretazione teatrale, Ninì Falpalà, che ottiene però solo un moderato consenso.
Nel 1934-1935 Dina Galli fonda una compagnia solitaria diretta da Romano Calò. Primo attore è Giulio Stival che si fa onore, il 16 ottobre 1935 a Como, a fianco della Galli in Madame Sans Gêne di Victorien Sardou e Emile Moreau. La stessa coppia, nel 1935, è protagonista di uno spettacolo di straordinario successo, Felicita Colombo di Giuseppe Adami. L’eco di questa interpretazione è tale da spingere Adami a scrivere un seguito intitolato Nonna Felicita. Nei due lavori di Adami Dina Galli torna alla recitazione dialettale da cui aveva preso avvio negli anni della sua formazione. Entrambi vengono anche adattati per il cinema (rispettivamente nel 1937 e nel 1938) in due film di grande successo popolare. L’arguta salumaia milanese resterà il capolavoro di Dina Galli e, complici anche gli adattamenti cinematografici, si configurerà nel tempo come l’interpretazione più ricordata della sua carriera. Un tentativo di emulare le commedie di Adami è costituto in teatro anche dagli spettacoli La Ninetta del verziere (diretto nel 1937 da Luciano Ramo) e Paola Travasa (diretto da Marcello Giorda nel 1939) che non suscitano però altrettanti entusiasmi.
A Giulio Stival succedono dal ‘37 al ‘39 Romano Calò e dal ‘39 al ‘40 Marcello Giorda. Tra le novità messe in scena in questo arco temporale figurano L’amica di tutti e di nessuno di Alessandro De Stefani, Lanterna cieca e Donna serpente di Giuseppe Adami, Evelina zitella per bene di Andrea Dello Siesto, Eva in vetrina di Guglielmo Giannini, Aprite le finestre e Una volta in tutta la mia vita di Carlo Veneziani, Facciamone una donna di Gherardo Jovinelli, Un sorriso sul mondo di Piero Mazzolotti, La moglie di papà di Alessandro De Stefani e Raffaele Matarazzo.
Dal ‘40 al ‘41 Dina Galli si associa a Nerio Bernardi. Lo spettacolo più significativo del periodo è Madre Allegria di Luis Fernandez De Sevilla e Rafael Sepúlveda, in cui la Galli interpreta la parte di una monaca dal cuore generoso. Dal ‘41 al ‘43 la capocomica affida la direzione della sua compagnia a Corrado Racca. Tra gli allestimenti si ricordano: Passo d’addio di Giuseppe Adami, Il sole a scacchi di Guglielmo Giannini, KL47 di Renato Lelli.
Alle interpretazioni teatrali alterna quelle cinematografiche: nel 1939 recita, nuovamente con Gandusio, in Frenesia di Mario Bonnard (riadattamento di Alla moda! di Falconi e Biancoli), nel 1941 in La zia smemorata di Ladislao Vajda e in Il sogno di tutti di Oreste Biancoli. Compare in seguito in brevi apparizioni in numerosi film: nel 1942 partecipa a Giorno di nozze di Raffaello Matarazzo, nel 1943 a Stasera niente di nuovo di Mario Mattoli, nel 1944 a Tre ragazze cercano marito di Duilio Coletti, nel 1945 a Lo sbaglio di esser vivo di Carlo Lodovico Bragaglia, nel 1947 a Vanità di Giorgio Pastina, nel 1950 a I cadetti di Guascogna di Mario Mattoli e nel 1951 a Sambo di Paolo William Tamburella.
Nel 1945 partecipa a alcuni rilevanti spettacoli della Morelli-Stoppa tra cui Fior di pisello di Edouard Bourdet diretto da Ettore Giannini con Nino Besozzi, Paolo Stoppa e Rina Morelli. Nello stesso anno è anche una delle due vecchiette di Arsenico e vecchi merletti di Joseph Kesserling e la medium di Spirito Allegro di Noel Coward.
Associatasi nuovamente a Stival allestisce tra il 1946 e il 1948 Vogliamoci bene e Come si dice di Mario Mattoli, Viva l’imperatore di Sacha Guitry, Gli occhi azzurri dell’imperatore di Ferenc Molnár e Okay oder Die Unsterblichen di Ernst Wiechert. Si unisce poi a Nino Besozzi (1948-1949), e infine con Corrado Racca e Enrico Viarisio. Con quest’ultimo e Milly prende parte alla rivista Quo vadis? di Dino Falconi, Oreste Biancoli, Angelo Frattini e Orio Vergani. Già in precedenza si era cimentata con successo in questo genere (ad esempio nel 1945 in Col cappello sulle ventitré 1945 di Riccardo Morbelli). Quo vadis? è la sua ultima interpretazione. Muore in un albergo di Roma il 4 marzo 1951.
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Famiglia
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Dina Galli è figlia d’arte. La madre Armellina (o Ermellina) Nesti recita in compagnie minori di teatro e operetta e, alla morte di Giuseppina Giovanelli, come caratterista della compagnia dialettale milanese diretta da Edoardo Ferravilla. Il padre Giuseppe, ventiquattrenne al momento della nascita di Dina, è figlio di Luigi Galli, basso comico di una certa notorietà, presente, all'età di sessant'anni, quale testimone dell'atto di nascita della nipote (cfr. Atto di Nascita di Galli Clotilde, Milano, Ufficio di Stato Civile, Anno 1877, R. A., n. 2968). Circa le sue doti artistiche le fonti non sono concordi: molte di esse (tra cui il volume di Augusto De Angelis, Dina Galli e Amerigo Guasti, Milano, Modernissima, 1923, p. 18) riportano la notizia che fosse un cantante buffo (forse confondendolo con Luigi); sull'atto di nascita di Dina è invece registrato come impresario teatrale. Luigi Galli è anche il nome di un fratello di Dina, attore nella compagnia di Edoardo Ferravilla e autore di alcune commediole in dialetto milanese, morto nel 1919 a soli 46 anni.
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Formazione
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Figlia d’arte, Dina Galli muove i suoi primi passi sul palcoscenico ancora bambina in compagnie minori di teatro e d’operetta in cui milita la madre Armellina Nesti. Decisivo è l’incontro con Edoardo Ferravilla, con il quale recita come generica e in seguito in parti da attrice giovane. La frequentazione di Ferravilla è senza dubbio un’esperienza fondante per la sua crescita artistica. Il capocomico milanese è tra i maggiori attori comici del momento (se non il maggiore in assoluto). L’addestramento di Dina Galli avviene interamente nell’ambito del genere comico alla “scuola” di uno straordinario e multiforme interprete. La pratica quotidiana delle scene le consente di assimilare tutti i “trucchi” del mestiere: le tecniche dell’improvvisazione, il processo di preparazione degli spettacoli secondo il quale il personaggio viene “abbozzato” prima della costruzione del testo, la propensione verso il canto e la musica sono parte del “bagaglio” che Dina Galli acquisisce nei suoi anni di apprendistato e che porta con sé per tutta la carriera.
Entrambi gli attori ammettono la singolarità del loro rapporto. Dina Galli identifica in Ferravilla il suo maestro. Il capocomico milanese, che di solito sconfessa gli attori che si dicono suoi allievi per dare più lustro al proprio lavoro, riconosce nella “monella” la sua erede: «Allievi, nel comune senso che si suol dare alla parola, io non ne ho mai avuti [...] farò una mezza eccezione in onore della Galli» (Renzo Sacchetti, Aneddoti ferravilliani, Milano, Bietti, 1939, pp. 86-87).
Il repertorio su cui Dina Galli si esercita in gioventù è quasi esclusivamente dialettale. Al momento della scrittura nella Talli-Gramatica-Calabresi è costretta a rimediare i limiti della sua preparazione studiando dizione. L’attrice si prenderà una rivincita negli anni della piena maturità artistica portando al successo nazionale in Felicita Colombo e in Nonna Felicita di Giuseppe Adami il personaggio di una salumiera milanese.
Il merito di aver individuato le doti di Dina Galli va in buona parte riconosciuto anche a Virgilio Talli che nel 1900 la scrittura come prima attrice giovane. Talli intuisce la sua eccezionale propensione verso la recitazione comica e non esita ad affidarle precocemente parti di prima attrice nel repertorio pochadistico. Per suo merito la personalità artistica di Dina Galli può finalmente rivelarsi al pubblico in prove di consistente difficoltà. I successi ottenuti le consentono già dopo un solo triennio comico (cui segue un anno di riposo) di formare come capocomica una propria compagnia.
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Interpretazioni/Stile
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Corpo minuto e magro, viso aguzzo, occhi grandi e prominenti (che Silvio d’Amico paragonò a due uova al tegame), faccia ossuta, bocca allungata con una costante espressione di stupore, voce non troppo robusta, Dina Galli colpisce immediatamente lo spettatore per il particolare aspetto fisico di cui la “natura” l’ha dotata. La sua recitazione valorizza quelli che in un’aspirante prima attrice del teatro del primo Novecento dovevano apparire incontestabilmente come difetti. Né bella né procace per convincere il pubblico e primeggiare Dina Galli è costretta a inventare una via del tutto originale. I “difetti” fisici che avrebbero potuto danneggiare la sua ascesa giovanile divengono i suoi punti di forza, la sua “maschera”. Le mani lunghe e ossute sono messe in maggior rilievo dalla gesticolazione continua. L’eccessiva magrezza è pretesto per continue allusioni autoironiche. Un esempio aneddotico in proposito è quello che ricorda una sua improvvisata esclamazione, «Per carità, amico, non parliamo degli assenti...», usata per interrompere nel corso di uno spettacolo il primo attore intento a lodare i suoi seni (cfr. Eugenio Bertuetti, Ritratti quasi veri, Torino, Stabilimento Grafico Armando Avezzano, 1937, p. 65).
Dopo gli anni dell’apprendistato con Edoardo Ferravilla, il momento cruciale per la futura carriera di Dina Galli si colloca all’apertura del nuovo secolo, nel 1900, con la scrittura nella Talli-Gramatica-Calabresi. È infatti il rigoroso capocomico Virgilio Talli, forse in parte deluso dall’esordio della Galli in Dionisa di Alexandre Dumas fils, ad intuire l’eccezionale valore potenziale della sua prima attrice giovane in un repertorio adatto alle sue innate corde comiche. L’ascesa di Dina Galli, indirizzata da Talli verso le pochades, è ulteriormente favorita dall’atteggiamento intransigente della prima attrice Irma Gramatica che si rifiuta di interpretare commediole leggere ritenute inadatte al suo temperamento artistico.
La previsione di Talli è confermata dalla consacrazione di Dina Galli in Loute di Pierre Veber. La sua originalità nel panorama teatrale italiano è però evidenziata soprattutto da La dame de Chez Maxim di Georges Feydeau, banco di prova per il confronto con le attrice già affermate. La versione della Galli si distingue da tutte le altre per la direzione intrapresa. Alla malizia piccante della Crevette di Virginia Reiter e Teresa Mariani, oppone una monelleria ingenua che spoglia di volgarità, ma anche di tensione erotica, gli intrecci ammiccanti. Sarà questa la cifra stilistica di tutte le successive interpretazioni di Dina Galli che cristallizza la sua immagine in quella di eterna bambina.
La cospicua parte del repetorio in cui Dina Galli si cimenta con successo in giovinezza appartiene all’ambito pochadistico. Dina Galli interpreta un consistente elenco di pièces “a orologeria” di importazione francese spogliando le disinibite protagoniste di ogni prorompenza femminile. Lo sguardo ironico, ovvero distaccato, dell’interprete verso le proprie creazioni smaschera continuamente il gioco teatrale. In questo modo l’attrice conferisce ai testi d’importazione un aspetto familiarmente italiano: «Dina Galli ha avuto naturalmente il privilegio di interpretare, e quindi di rivelare, il pariginismo di una casalinga di Milano; il desiderio di avventurierismo di chi è immancabilmente destinato a rimanere provinciale» (Luigi Maria Personé, Il teatro italiano della “Belle époque”, Firenze, Olschki, 1972, p. 354).
La specializzazione nel genere della commedia è rimarcato dal ruolo assunto da Dina Galli, quello di “prima attrice comica”, pernio di formazioni il cui repertorio esclude il dramma “serio” di ascendenza dumasiana, privilegia la commedia leggera, ma include (in misura crescente dopo la separazione da Sichel) anche le più importanti commedie sentimentali (come Zazà di Pierre Berton e Charles Simon) in cui Dina Galli conduce gli spettatori dal riso alle lacrime. Una prima interpretazione particolarmente incisiva di questo genere è quella in Friquet, in cui Dina Galli veste i panni di una ragazzina del circo, una «bambina sedicenne, magra, patita e quasi lacera» (Lucio Ridenti, La vita gaia di Dina Galli, Milano, Corbaccio, 1929, p. 106). Il finale tragico che chiude le gags della monella ribelle porta gli spettatori alla commozione: «Dina Galli, sulla scena, [...] dava ai suoi monosillabi quella rassegnata disperazione necessaria a Friquet, creatura umile e semplice, che si uccide per amore, e che morendo felice di essersi uccisa, vede per la prima volta l’irraggiungibile ed inconsapevole uomo del suo sogno, giunto fino a lei per chiuderle gli occhi» (ivi, p. 108).
La necessità di personalizzare il repertorio spinge Dina Galli a incoraggiare gli autori teatrali a scrivere per lei. Una felice collaborazione è quella con Dario Niccodemi che, indirizzandole la commedia Scampolo, le offre finalmente una valida alternativa alla drammaturgia francese. In Scampolo Dina Galli trova una parte effettivamente corrispondente al suo temperamento di eterna bambina vivace e allegra, ma anche incline al sentimentalismo. Oltre a Niccodemi altri autori, tra cui Giuseppe Adami e Arnaldo Fraccaroli, contribuiranno a definire ancora più fortemente la sua personalità artistica dandole modo di incarnare sulle scene personaggi femminili perfettamente aderenti alle sue qualità, ragazzine ingenue e furbe spesso dai tratti quasi androgini. Tra questi, pare piuttosto significativo anche quello della protagonista di Jack Broder di Gioacchino Forzano: una stracciona vestita da ragazzo e da tutti ritenuta un uomo che alla fine viene scoperta da un produttore cinematografico.
Con il sopraggiungere dell’età, il criterio di scelta delle parti deve essere sottoposto a ripensamento. La diatriba con Antonio Gandusio mette in rilievo che negli anni 1930-1931 l’attrice si trovava di fronte a un momento di passaggio nella sua carriera. Il conflitto tra i due capocomici nasce dalla volontà di entrambi di recitare nelle parti dei protagonisti. Secondo Gandusio, l’attrice si sarebbe dovuta piegare al ruolo di caratteristica: Gandusio percepiva che la collega, non più giovanissima, aveva difficoltà a rinnovare il repertorio, trovando parti adatte alla sua età e alla sua personalità artistica. L’ostinazione di Dina Galli a fare sempre e comunque la protagonista è descritta dal capocomico in questi termini: «in Diky vuol fare la giovane innamorata, nel Campanello d’allarme vuol fare la seconda donna mentre c’è una caratterista bellissima che ringiovanisce atto per atto. Invece Il signor conte, dove lei fa mirabilmente una macchietta zitellona, piace e si replica dappertutto, il che prova che avevo ragione io [...] Piace invece Alla moda, dove lei fa mia moglie, una donna di settanta anni» (Antonio Gandusio, Cinquant’anni di palcoscenico, Milano, Ceschina, 1959, pp. 131-132). Aggiunge ancora Gandusio: «Se avesse accettato le parti di caratterista e attrice madre, avrebbe rinnovato se stessa, e si sarebbero scritte commedia apposta per lei» (ivi, p. 133). Evidentemente il passaggio al ruolo di caratteristica nel consueto repertorio avrebbe costituito una retrocessione per la prima attrice comica che si sarebbe limitata a parti minori. Tuttavia l’indicazione di Gandusio mette in rilievo la necessità per Dina Galli di trovare nuove parte più consone alla sua età.
Il cinema, cui Dina Galli si dedica (dopo due episodi all’epoca del muto nel 1914) soprattutto a partire dagli anni Trenta, raccoglie alcune interessanti testimonianze dello stile interpretativo dell’attrice in questa seconda fase della carriera. Quando nel 1933 si cimenta in Ninì Falpalà, trasposizione sul grande schermo di un suo passato successo, l’attrice ha già una lunga carriera alle spalle. La protagonista è un’artista del varietà ormai sfiorita che per farsi pubblicità simula un suicidio architettando un piano che viene però mandato all’aria dall’intromissione di un troppo zelante salvatore. Nel film, che non ebbe una particolare risonanza, Dina Galli si cimenta in una serie di gags che propongono l’ennesima variazione sui contrasti tra ingenuità e astuzia, furbizia e goffaggine, allegria e malinconia. In una sequenza particolarmente apprezzata la chanteuse affamata compensa con il cibo la carenza di affetto. Le direttive del regista Amleto Palermi, che impone all’attrice una gesticolazione misurata, limita però la verve istintiva dell’attrice.
Anche altre successive interpretazioni cinematografiche sono adattamenti dei precedenti successi teatrali della capocomica. Il cinema d’epoca fascista cristallizza un’immagine già piuttosto tarda dell’attrice che non è ormai più un’indomabile monella quanto un’irresistibile “zia”. Alle “bambine” della prima parte della carriera seguono nella seconda direttamente donne “anziane” la cui femminilità è un ricordo. Così come in gioventù Dina Galli non aveva mai sottolineato gli accenti femminili, in vecchiaia interpreta ora “l’amica”, ora la vedova, ora la zitella, ma solo di rado ha un marito in scena: «la “libertà” sentimentale gioca a favore della sua aria da monella senza età, esaltando quell’aria indifesa che intenerisce» (Stefano Masi-Enrico Lancia, Stelle d’Italia, Roma, Gremese, 1994, vol. I, p. 793).
Tra scena e schermo, il maggiore successo dell’intera carriera di Dina Galli è quello in Felicita Colombo (1937) di Giuseppe Adami, in cui l’attrice torna a confrontarsi con la recitazione in milanese per tratteggiare il personaggio di un’arguta salumiera, la cui figlia sposa il rampollo di un conte impoverito, ma snob. I comportamenti artefatti degli aristocratici sono messi in ridicolo dalla lealtà e dalla naturalezza di Felicita, popolana di buon cuore. Il film di Mario Mattoli, raro esempio di prodotto dialettale in epoca fascita, segue di poco la straordinaria affermazione dello spettacolo. Il regista lascia all’interprete piena libertà di movimento. Il risultato, estremamente lusinghiero sia sotto il profilo artistico sia sul piano commericale, induce il produttore Capitani a investire nel suo seguito Nonna Felicita (1938). Stavolta Felicita è alle prese con un nipote che si è fatto abbindolare da una francesina a caccia di un marito ricco. Al fianco di Dina Galli, nella parte dell’amico fidato, Armando Falconi. La coppia Galli-Falconi si ripropone anche nei successivi film tra cui La zia smemorata (1941) di Ladislao Vajda (dove l’attrice, che aveva ormai più di sessantanni, interpreta il ruolo di una zia svampita e simpatica) e Il birichino di papà (1942) di Raffaello Matarazzo (in cui Dina Galli nei panni di una stizzosa nobildonna offre la parodia di un’interpretazione da prima attrice e madre).
Diva al teatro, dove si cimenta accolta da acclamazioni anche in alcune riviste e commedie musicali fino alla morte, Dina Galli si confronta episodicamente anche con la radio e continua a prendere parte a un non inconsistente numero di film dove però è limitata a particine di carattere confinate in camei. In Stasera niente di nuovo (1942) di Mario Mattoli ad esempio, figura solo in due brevi apparizioni in cui interpreta la parte della proprietaria di una casa da affittare. Come per offrire una “versione ridotta” di Felicita Colombo, il personaggio parla in milanese e scivola dal comico verso la commozione.
Complessivamente Dina Galli è un’attrice di indiscusso successo di pubblico. Una parte della critica la attacca severamente per la scelta di un repertorio più attento alle ragioni di botteghino che non a quelle dell’Arte. Primo tra tutti, il giovane Silvio d’Amico che però, nel necrologio dell’attrice scritto in età più matura, avrebbe rivisto la sua posizione giustificandola con l’eccessiva intransigenza della gioventù. Riportando l’opinione di chi nel passato aveva provato a convincerlo del contrario (tra cui una stupita Eleonora Duse che avrebbe esclamato: «ma se è la nostra migliore attrice!»), Silvio d’Amico giunge ad ammettere che nel genere della commedia leggera Dina Galli superava di gran lunga ogni interprete italiana o straniera.
Proprio l’attaccamento a quel “deplorevole” repertorio esclusivamente comico (e comico-sentimentale) costituisce a posteriori un elemento di grande interesse perchè assolutamente originale nel panorama teatrale italiano. Il riso, cura al mal di vivere (e all’orrore della guerra) acquista in Dina Galli una funzione terapeutica totalizzante. Secondo quanto affermato da Vito Pandolfi sarebbe stato anche strumento per ridicolizzare le meschinità del tempo: l’attrice «metteva in luce le debolezze, i tic, le finzioni dell’epoca sperando che gli spettatori dovessero un po’ vergognarsi di se stessi, proprio per saper resistere all’impulso della risata con cui affettuosamente li provocava» (Vito Pandolfi, Spettacolo del secolo, Pisa, Nistri-Lischi, 1953, pp. 238-239).
Se innovativa è la scelta di specializzarsi come prima attrice comica e originale il fondamento su cui basa il suo stile interpretativo (seppure non del tutto privo di possibili termini di paragone nella generazione precedente di attrici, in particolare in Pia Marchi), tradizionale è certamente il metodo “compositivo” adottato dalla capocomica per la produzione degli spettacoli. Antonio Gandusio (con un fine sottilmente denigratorio) metteva in luce la sua insofferenza alle prove: «Non è tanto facile affiatarsi con la Galli, proclive ad andar a soggetto, a non studiar le parti, a non voler far le prove e con una istintiva inclinazione a far la caricatura del personaggio che interpreta [...]. Però ha una comicità veramente superiore, sebbene dialettale, e molta verve» (Antonio Gandusio, Quarant’anni di palcoscenico, cit., pp. 116-117).
La “colpa” è ammessa dalla stessa attrice in un brano in cui ben esplicita il procedimento da lei adottato che, secondo una tradizione secolare nel teatro italiano, parte dalla costruzione del “carattere”: «La dura fatica di provare è sempre stata contraria al mio temperamento. Il personaggio di una commedia vive in me subito dopo la prima lettura. Me lo elaboro mentalmente, me lo plasmo su misura durante il mio riposo fisico, sdraiata sul letto, in un continuo lavorio mentale. Le parole per me sono una cosa secondaria. L’importante è il carattere, lo spirito, la natura, l’essenza dell’interpretazione. Quando ci sono entrata fino in fondo, faccio quello che voglio io. Letta si e no un paio di volte la parte, poi le parole esatte me le dà il suggeritore, e [...] difficilmente tradisco il testo o improvviso. La mia pronta memoria mi assiste sempre, ch’è una meraviglia» (Giuseppe Adami, Dina Galli racconta..., Milano, Garzanti, 1943, p. 106).
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