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Poco dopo, Richard Basehart torna negli Stati Uniti: il matrimonio con la Cortese, che resta in Italia insieme a Jackie, è ormai finito. L’inizio degli anni Sessanta la vede alle prese con pellicole non eccezionali e parti quasi sempre piccole: è la capricciosa moglie di Rufio in Barabba (1961) di Richard Fleischer; interpreta poi, con un languido istrionismo che si appresta a diventare una delle sue più tipiche cifre stilistiche, l’enigmatica signora Laura Craven-Torrani nel thriller La ragazza che sapeva troppo (1963) di Mario Bava e, infine, «tutta sapienti miagolii e vezzosi sdilinquimenti» (Gian Luigi Rondi, Giulietta degli spiriti, in «Il Tempo», 4 aprile 1965), è la manierata e svaporata Valentina in Giulietta degli spiriti (1965) di Federico Fellini.
Nel frattempo, a partire dal 1959 ha ripreso l’attività teatrale, che per tutti gli anni Sessanta e parte degli anni Settanta è per lei assolutamente prioritaria: dopo Valentina Fortunato, diventa infatti la prima attrice del Piccolo Teatro di Milano e, più o meno dal 1960 al 1970, insieme a Giorgio Strehler, forma una «coppia teatrale», ovvero «una coppia che si costituisce per ragioni affettive, ma anche in rapporto con il mestiere: gli stessi orari, gli stessi problemi, gli stessi rituali, le stesse tensioni, le stesse gioie e gli stessi dispiaceri» (Giorgio Strehler, Io, Strehler. Conversazione con Ugo Ronfani, Milano, Rusconi, 1986, pp. 290-291). Il primo spettacolo strehleriano interpretato dalla Cortese è Platonov e altri di Anton Čechov (la prima al Piccolo di Milano il 27 aprile 1959), dove, al fianco di Tino Carraro nel ruolo del protagonista, dà vita al personaggio di Sofia. È durante le prove che nasce il suo amore per il regista: «lui - racconterà l'attrice - doveva mostrare a Carraro come abbracciarmi. Salì in scena, io sentii quelle braccia... col mio primo marito, Richard Basehart, ero in crisi, e pensai “o mio Dio?”. È stato un amore grande grande grande» (Anna Bandettini, Valentina Cortese, l’ultima diva. Io e Visconti offesi da Pinter, cit.).
Fondatore, insieme a Strehler, del Piccolo di Milano, Paolo Grassi ricorderà in questo modo il suo primo incontro con l’attrice: «Valentina l’ho catturata io al “Piccolo”, quando si volle fare Platonov e Giorgio mi disse: “Pensiamo a Valentina Cortese”. Andai a Roma, c’incontrammo con Valentina [...], e nacque subito una simpatia, che è poi diventata una forte, affettuosa, profonda amicizia. Siamo due temperamenti totalmente diversi: Valentina è l’emblema del “valentinismo”, cioè di uno spirito liberty, di un modo di vivere pubblico; io sono, viceversa [...], un introverso, un chiuso, un solitario, uno che sta bene con pochi amici, che non riesce a compiersi in una festa tumultuosa, in un baccano di personaggi, in un trionfo di eleganza e cose del genere. Però, al fondo di Valentina, c’è la sua infanzia a Romano Lombardo, c’è il suo essere cresciuta nei primi anni in campagna con principi solidi, con i piedi fermi per terra. Un conto è la Valentina che appare e un conto è la Valentina che è, e so che a me Valentina ha dato innumerevoli prove di amicizia [...]. Valentina, anche nella crisi di rapporti fra Giorgio ed il “Piccolo”, nel ’68, ha fatto di tutto perché Giorgio rimanesse fedele al “Piccolo” e questo anche compromettendo il suo stesso rapporto con Giorgio. Valentina [...], ha le sue capricciosità, le sue inalberature, i suoi atteggiamenti imprevedibili, ma so che lei non mi è mai mancata in momenti difficili come io non le sono mancato nei suoi momenti difficili» (Paolo Grassi, Quarant’anni di palcoscenico, a cura di Emilio Pozzi, Milano, Mursia, 1977, pp. 237-238).
Dopo Sofia nel Platonov, fra le altre cose, sempre per la regia di Strehler, è Nina nella ripresa di El nost Milan di Carlo Bertolazzi (1961), Beatrice in una riedizione dell’Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (1963), Ilse nei Giganti della montagna di Luigi Pirandello (1966) e Giovanna Dark in Santa Giovanna dei macelli di Bertolt Brecht (1970). In occasione del decennale dalla morte del regista, nel 2007, le verrà chiesto di scrivere qualcosa su di lui, e lei lo ricorderà così: «Giorgio era poesia, canto, dolcezza, follia! Era il teatro. Con lui tutto sembrava prendere il volo: io lo ascoltavo incantata, rapita dalle sue parole. Grazie, Giorgio, per questo teatro in cui hai dato la vita, dimenticandoti di vivere la tua. Mi hai insegnato a pretendere da me stessa il 100% per riuscire - sono parole tue ? “a dare almeno l'80, così che al pubblico arrivi il 60, affinchè si ricordi il 30”. Questo, dicevi, è il dramma di noi attori: scrivere sull'acqua, e proprio per questo dover lottare come se scrivessimo sul marmo. Anche se a volte c'erano fra di noi delle piccole burrasche, non cambiava nulla. Ci volevamo troppo bene perchè avessero importanza. Poi ci siamo dovuti dividere, ma ci siamo detti che non ci saremmo lasciati mai?» (Valentina Cortese, Giorgio, ricordi il nostro Giardino?, in «Vanity Fair», 20 dicembre 2007).
È alla ribalta del Piccolo che il suo originale stile recitativo giunge a maturazione, ha la possibilità di esprimersi liberamente e, oltrepassata la definitiva affermazione, arriva fino al punto di sfiorare quasi la “maniera”. Ormai, è una vera e propria diva. Riguardo all’attrice, verso la metà degli anni Ottanta, Strehler dirà che è «di una volontà inflessibile. Una donna che sa quel che vuole, con le sue idee, i suoi gusti»: a chi non la conosce, però, può dare di sé un’impressione molto diversa «perché è una grande mimetica. Sa assumere istantaneamente l’espressione che il momento richiede. Non solo davanti alla macchina da presa, sul palcoscenico. Anche nella vita ha una capacità immediata di vedere proiettata la propria immagine. Mi viene in mente un nostro addio in stazione; lei è in pelliccia, con un colbacco; il vapore sale da sotto la carrozza e lei saluta come fosse Anna Karenina. Chi l’avesse vista poteva pensare che stesse recitando. Invece no, era assolutamente sincera. Tutta questione di quel suo istintivo mimetismo. Che sulla scena diventava il mezzo, l’arma per affermare se stessa» (Giorgio Strehler, Io, Strehler. Conversazione con Ugo Ronfani, cit., pp. 292-293).
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