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Esemplare l’ottava scena dell’atto quinto, dove l’attrice entra in scena vestendo gli abiti femminili di Candida e viene scambiata dal poeta Laurindo per Nebì vestito da donna: «POETA ? Vedete questo bricconcello come s’infinge donna». Subito dopo Virginia esce di scena per ripresentarsi pochi istanti dopo nelle vesti maschili di Nebì. La magia della recitazione è compiuta, il disorientamento degli altri personaggi è totale: «POETA ? Non se’ tu ora entrato in casa del signor Lelio, al mio dispetto, in abiti femminili? Non dir di no, perché siamo in duo che t’abbiamo veduto» (Giovan Battista Andreini, La Turca, Casale Monferrato, Goffi, 1611, pp. 163-164). Davanti all’illusione scenica generata dalla straordinaria tecnica dell’attrice, i personaggi sono confusi, gli spettatori affascinati e sedotti: Virginia è uomo e donna al tempo stesso, concreta ed evanescente, reale e fittizia. Una fascinazione carica di ambiguità ed erotismo celebrata anche in un anonimo madrigale del tempo: «Donna qualhor vegg’io/ Ch’or furi a l’huomo hor a la donna in scherzo/ Gl’abiti e i vestimenti/ Venere e amor mi sembri a i portamenti./ Così di madre, e figlio/ Fingi in habito terzo/ Le tue grazie il tuo ciglio./ Ahi ch’in sì strani modi/ Fingendo stringi i cori in mille nodi» (Quando veste habito da huomo, in Siro Ferrone, Attori mercanti corsari, Torino, Einaudi, 1993, p. 267, n. 67). Inoltre, l’ovvia e inevitabile agnizione che chiude la commedia, in cui la fanciulla smarrita Candida si scopre figlia legittima del poeta Laurindo, porta a compimento il solito percorso di ascesa dall’inferno al paradiso: la redenzione del personaggio Candida coincide con quella dell’attrice Virginia, che riscatta col suo virtuosismo lo scandalo della seduzione.
Di nuovo in abiti maschili l’attrice si ripresenta ne Lo Schiavetto. Stavolta il gioco è meno complesso: si tratta semplicemente di Florinda sotto mentite spoglie per vendicarsi dell’ingrato amante Orazio. La doppia redenzione della donna e dell’attrice è tutta nella rivelazione finale della propria identità sessuale, dove Florinda rinuncia al proposito di uccidere Orazio, ottenendo il suo perdono e riconquistando il suo amore: da donna travestita da uomo e omicida a sposa virtuosa e felice. Rivelando la propria identità, Virginia-Florinda si esibisce ancora nel suo numero prediletto, il lamento della donna abbandonata, la cui sofferenza è anche ulteriore giustificazione dello scandalo del travestimento, ulteriore gradino verso la rigenerazione: «E quella (o crudo) alfin son io, che tu lusingando invaghisti, che falseggiando tradisti, che violando uccidesti. [...] Considera or tu, con quanto pianto prima vestii queste membra, che di queste vestimenta io m'appagassi di ricoprirle. [...] Pensa deh, pensa or tu, a quante calamità di lunga e incerta peregrinazione si avventurò donna, che per natura altro conoscer non dee che gli angusti confini della sua casa!» (Giovan Battista Andreini, Lo Schiavetto, Milano, Malatesta, 1612, in Laura Falavolti, Commedie dei comici dell’arta, Torino, UTET, 1982, pp. 57-213).
Un registro malinconico particolarmente caro a Virginia e agli spettatori del tempo. Un altro quadro di Domenico Fetti, intitolato appunto Melanconia, è dominato da una figura femminile straordinariamente simile all’Arianna del dipinto menzionato in precedenza, nelle cui fattezze sembra di cogliere la Ramponi in una delle sue pose sceniche più tipiche: raccolta in malinconica meditazione, avvolta dalla penombra, circondata da oggetti simbolo del sapere e delle arti. La malinconia di Virginia è rintracciabile in tutte le grandi opere andreiniane degli anni venti. Con accenti ancor più malinconici del solito, ritroviamo il consueto lamento della donna abbandonata ne Le due comedie in comedia: «né così tosto l’empio, l’ingannatore, ha colto nel giardino de’ più teneri anni miei il fior di mia virginità, che rapido su l’ali di leggerezza vana, d’infedeltà costante, se ne fugge». Malinconia che repentinamente si trasforma in ira e fuoriosa gelosia alla vita della rivale in amore: «lasciatime levar la vita a chi mi leva l’amante e ‘l marito» (Giovan Battista Andreini, Le due comedie in comedia, in Commedie dell’Arte, a cura di Siro Ferrone, Milano, Mursia, 1986, II, pp. 17-105).
Dalla rabbia alla dolcezza, dal canto al brillante scambio di battute, dal sussurro al grido, dalla malinconia alla disperazione. Virginia Ramponi rappresenta senza dubbio l’espressione più alta di un professionismo teatrale nel pieno della sua parabola evolutiva: attrice eclettica, versatile, poliedrica, in grado di appropriarsi di qualsiasi timbro recitativo e di interpretare qualsiasi sentimento, capace col suo smisurato talento di affrancarsi dall’evanescenza dell’arte comica imprimendosi nella memoria collettiva e imperitura e diventando perciò immortale.
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