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La redazione è a disposizione dei titolari di eventuali diritti d'autore per discutere i riconoscimenti del caso.

 

 


 

«Archivio Multimediale degli Attori Italiani», Firenze, Firenze  University Press, 2012.
eISBN: 978-88-6655-234-5
© Firenze University Press 2012

Attore > teatro, opera
NomeVirginia
CognomeRamponi
Data/luogo nascita01 gennaio 1583 Milano?
Data/luogo morteante 17 settembre 1631
Nome/i d'arteFlorinda
Altri nomiAndreini
  
AutoreRiccardo Lestini (data inserimento: 09/03/2009)
Virginia Ramponi
 

Sintesi | Biografia| Famiglia| Formazione| Interpretazioni/Stile| Scritti/Opere|

 

Sintesi

Famosa attrice, cantante e musicista del XVII secolo, attiva sicuramente tra il 1604 e il 1630 nel ruolo di prima innamorata con il nome d’arte di Florinda. Tra le più importanti e celebrate interpreti della Commedia dell’Arte, divide la sua intera parabola artistica con il marito Giovan Battista Andreini.


Biografia

Virginia Ramponi, come riportato dal suo oroscopo, nasce il 1 gennaio 1583, probabilmente a Milano. Nonostante in una supplica del 1610 indirizzata al senato genovese sia definita «cittadina originaria di questa città» (Supplica dei comici Fedeli al senato di Genova, autunno 1610, in Achille Neri, Fra i comici dell’Arte, in «Rivista Teatrale Italiana», VI, 1906, vol. IX p. 106), e in un sonetto di Leone Sempronio da Urbino sia lodata come una «delle gran Dee Toscane» (Giovanni Leone Sempronio da Urbino, Selva poetica, Bologna, Ferroni, 1633, p. 198), le probabili origini lombarde sono confermate, oltre che dai repertori biografici di Francesco Saverio Bartoli e Luigi Rasi, dall’introduzione al poema sacro di Giovan Battista Andreini La Tecla Vergine e Martire, in cui Lelio la definisce appunto «milanese» (Venezia, Guerigli, 1623). L’affermazione della supplica, che la vorrebbe genovese, potrebbe essere una falsificazione architettata dai comici per ottenere licenza di recitare in quella città, mentre il sonetto allude senz’altro alle origini del marito e alle lunghe permanenze della coppia in Toscana.

Non possediamo notizie su Virginia Ramponi prima del 1600, anno in cui appena diciassettenne sposa Giovan Battista Andreini. Da questo momento, oltre a entrare di fatto nella più gloriosa e celebrata famiglia d’arte del tempo, l’attrice assieme al marito, con cui divide tutta la carriera, è la diretta continuatrice delle esperienze e delle strategie artistiche ed economiche degli illustri suoceri Francesco e Isabella. La compagnia dei comici Fedeli, sotto il cui vessillo si consuma l’intera parabola artistica di Lelio e Florinda, si candida da subito a raccogliere l’eredità dei Gelosi. Non a caso le notizie sui due comici iniziano a farsi frequenti soltanto dal 1604, anno della morte di Isabella, del ritiro dalle scene di Francesco e del conseguente scioglimento dei Gelosi: una sorta di simbolico passaggio di testimone che lo stesso Giovan Battista Andreini sottolinea con forza nelle pagine del dialogo La saggia egiziana: «ond’hoggi ancora il mondo/ risuona de Gelosi il nome eterno,/ che fra palme, e honor spiegaro e l’aura/ Virtuoso vesil cui seguon lieti/ (Emuli professor) quei, che Fedeli/ Comici appella l’uno, e l’altro polo» (Giovan Battista Andreini, La saggia egiziana, Firenze, Timan, 1604, p. 33).

L’ipotesi avanzata da Bartoli secondo cui è lo stesso Giovan Battista, tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII, a creare la compagnia dei Fedeli, risulta assai improbabile. I nomi di Virginia Ramponi e di Giovan Battista Andreini non compaiono infatti in una supplica del 1601 indirizzata alla città di Genova e firmata da «una nuova compagnia cognominata li Fedeli» (Supplica dei comici Fedeli alla città di Genova, maggio 1601, in Achille Neri, Fra i comici dell’Arte, cit., p. 98). Più logico pensare a un ingresso successivo e a una conquista sul campo, proprio in virtù del loro illustre cognome, del ruolo di capocomici.

Sempre secondo Bartoli Virginia Ramponi fu introdotta nel mondo dei comici dal marito, che ne curò l’apprendistato e la aiutò a specializzarsi nel ruolo di prima innamorata. In realtà i documenti sembrano attestare l’esatto contrario. Le tappe iniziali dell’ascesa degli Andreini sono infatti segnate soprattutto dai clamorosi successi personali dell’attrice, che nel giro di pochi anni riesce a imporsi come prima donna assoluta delle scene italiane scalzando colleghe più esperte e mature. La stessa compagnia dei Fedeli è più volte detta «compagnia della Florinda» anziché di Lelio. Sin dalle sue prime apparizioni sulla scena, Virginia possiede già un campionario di competenze artistiche così maturo e variegato da poter far presupporre un apprendistato autonomo e anche precedente all’incontro con Giovan Battista.

Nel 1604 probabilmente recita a Firenze una tragedia letteraria composta dal marito per l’Accademia degli Spensierati: La Florinda, nome d’arte di cui si fregerà poi per tutta la vita. Anche se non è certa l’interpretazione della tragedia di Lelio, in quello stesso anno Virginia ha senz’altro modo di mostrare le proprie virtù d’attrice agli Spensierati. Il successo è tale che sempre nel 1604 la stessa Accademia dà alle stampe il libretto Rime in Lode della Signora Virginia Ramponi Andreini Comica Fedele detta Florinda, prima di una lunga serie di corone di lodi poetiche in suo onore, mentre il celebre pittore Cristofano Allori, tra i principali animatori dell’Accademia, dedica all’attrice un ritratto, purtroppo perduto. Anche in virtù di questi successi, l’anno seguente Lelio e Florinda, assieme a tutta la troupe dei Fedeli, entrano nella formazione più prestigiosa e accreditata del tempo: la compagnia del duca di Mantova diretta da Pier Maria Cecchini e dalla moglie Orsola Posmoni.

Nel settembre del 1606 la compagnia ducale è di stanza a Milano. Oltre agli Andreini e ai Cecchini vi sono presenti Silvio Fiorillo, Aniello Di Mauro, Giovanni Maria Bachini e altri due comici non meglio identificati, interpreti rispettivamente delle parti di Pantalone e Graziano. Grazie alle sue straordinarie qualità performative, Florinda ottiene un nuovo clamoroso successo personale presso il conte di Fuentes, governatore della città, che allieta «con cantare et sonare» (Lelio Belloni ad Annibale Chieppio in Mantova, Milano 25 settembre 1606, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1730, 1 c.n.n.). Il successo è tale da spingere Andreini a cercare di sfruttare al massimo il talento della giovane moglie prolungando il soggiorno milanese e venendo di conseguenza meno agli accordi presi con la compagnia, impegnata il mese successivo a Bologna. Frittellino, in qualità di capocomico, avvia una fitta corrispondenza epistolare con la corte mantovana per denunciare il tentativo di insubordinazione: «queste sono persone avezze andar con comedenti et non con comedianti: vogliono comandare, gridare, andar et star quando gli piace, ma io ch’io sono constumato con gli primi comici che sono statti al mio tempo, non posso, né mi par ch’io deba, soportar tante impertinezze» (Pier Maria Cecchini ad Annibale Chieppio in Mantova, Milano 11 settembre 1606, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1730, 1 c.n.n., in Comici dell’Arte. Corrispondenze, edizione diretta da Siro Ferrone, a cura di Claudia Burattelli, Domenica Landolfi, Anna Zinanni, Firenze, Le Lettere, vol. I., pp. 221-222).

Ma Lelio e Florinda, forti del potente appoggio dello stesso conte di Fuentes, possono permettersi di irridere i richiami del loro capocomico. Scrive ancora, esasperato, Cecchini: «la Florinda, con quel suo modo altero et sprezzante, va al solito procedendo, et si usurpano l’arbitrio, et lei et suo marito, di voler venire, non voler venire, et far quello che più comanda il suo capricio» (Pier Maria Cecchini a Vincenzo I Gonzaga in Mantova, Milano 26 settembre 1606, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1730, 1 c.n.n., in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., pp. 225-226). Le pressioni del conte di Fuentes sono così insistenti che il 25 settembre Annibale Chieppio fa sapere all’ambasciatore Lelio Belloni che il duca concede agli Andreini il permesso di separarsi dalla compagnia, a patto che «certo interesse pecuniario fosse risarcito dalla Florinda et suo marito agl’altri, che non haverano altro interesse di stare a Milano» (Annibale Chieppio a Lelio Belloni in Milano, Mantova, 25 settembre 1606, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 2704, fasc. 6, lett. 69). Nonostante il permesso del duca, all’inizio di ottobre Lelio e Florinda partono da Milano con tutta la troupe alla volta di Mantova, per poi raggiungere Bologna in novembre.

È soltanto il primo atto della burrascosa convivenza tra gli Andreini e i Cecchini, uno scontro decennale in cui si fronteggiano due maniere diametralmente opposte di intendere la professione teatrale. Da un lato l’attenzione di Frittellino e Flaminia all’immediato presente, all’unità della compagnia e alle esigenze del gruppo, dall’altro la strategia di Lelio e Florinda incentrata sulla memoria futura e sull’autocelebrazione, sulla meticolosa costruzione di una fitta rete di singole committenze e protezioni illustri. La lotta per la supremazia nella compagnia ducale tra le due coppie d’arte, vede vincitori in un primo momento i più esperti e navigati Cecchini. È Frittellino che nel 1607 riceve dal duca di Mantova l’incarico di formare una compagnia per una prossima, e importantissima, tournée in Francia. Dalla troupe allestita da Cecchini Lelio e Florinda restano ovviamente esclusi, ma proprio la partenza dei principali rivali risulta decisiva per la definitiva consacrazione degli Andreini.

Con il campo completamente libero dagli avversari, le quotazioni di Virginia e Giovan Battista presso le piazze italiane salgono fino a ottenere un prestigio identico, se non superiore, a quello dei Cecchini. Ancora una volta, nella conquista del successo, sono decisive le virtù recitative di Florinda. Nella primavera del 1608 a Mantova fervono i preparativi per le nozze di Francesco Gonzaga, primogenito di Vincenzo, con Margherita di Savoia, figlia di Carlo Emanuele I. L’apertura del ciclo festivo è affidata all’Arianna, commedia musicale di Ottavio Rinuccini con le arie di Claudio Monteverdi e i recitativi di Jacopo Peri. La preparazione dell’allestimento viene però bruscamente interrotta il 9 marzo dalla morte improvvisa della protagonista, la giovane cantante Caterina Martinelli. A sostituirla all’ultimo momento è chiamata proprio Virginia Ramponi, che sin dalle prime prove riesce a sbalordire tutti con il suo talento, imparando la parte in appena «sei giorni, e la canta con tanta grazia ed affetto che ha fatto meravigliare Madonna, il signor Rinuccini e tutti i signori che l’hanno udita» (Antonio Costantini a Vincenzo Gonzaga in Mantova, Mantova 15 marzo 1608, in Pietro Canal, Della musica in Mantova, Bologna, Forni, 1977, p. 110). La sera dell’esecuzione ufficiale, mercoledì 28 maggio 1608, per Florinda è un trionfo senza precedenti: «tutti i recitanti ben vestiti fecero la loro parte molto bene, ma meglio di tutti Ariana commediante; et fu la favola d’Ariana et Theseo, che nel suo lamento in musica accompagnato da viole et violini fece pianger molti la sua disgrazia. V’era un Raso musico che cantò divinamente; ma passò la parte Ariana, et gl’eunuchi et altri parvero niente» (Annibale Roncaglia a Cesare d’Este in Modena, Mantova 29 maggio 1608, Modena, Archivio di Stato, Estense, Ambasciatori, Mantova, b. 8, fasc. 6, c. 4rv, in Claudia Burattelli, Spettacoli di corte a Mantova tra Cinque e Seicento, Firenze, Le Lettere, 1999, pp. 44-45).

La partecipazione al ciclo festivo mantovano del 1608 nel corso del quale viene impiegata, sempre come cantante, anche nel balletto delle Ingrate, è la vera svolta della carriera di Virginia Ramponi e, per riflesso, anche di Giovan Battista Andreini. Florinda diventa, così come lo era stata la suocera Isabella, l’incarnazione stessa del mito della prima donna, attrice seducente e sposa virtuosa al tempo stesso, eroina e martire, capace di cancellare le bassezze del mestiere dell’attore con la propria levatura spirituale. Un’immagine che Giovan Battista Andreini, attraverso i suoi scritti, saprà sapientemente alimentare e consacrare, dipingendo la moglie come donna ostinatamente devota al lavoro e alla famiglia: «in retirata camera retirandosi, altro non fa che dottrinar se stessa con que’ savi discorsi che di recitar se le aspetta, e corregger l’azzioni sue col mortificarsi nella poca e nella molta lubricità del gestire, [...] stanca alle stanze s’invia e si ricovra, [...] udito, veduto quello che studiarono il giorno i pargoletti figliuoli, ecco della cena l’ora soprarriva e del riposo l’ora. Ecco la misera, nelle fatiche ognor sommersa, nel letto stesso angusto ricovero dell’auguste fatiche, all’acceso lume dar lume maggiore con la virtù a se stessa, altre cose nuove studiando, al nuovo tempo per rappresentarle, alla donnesca riputazione per accrescer giornalmente vanti maggiori» (Giovan Battista Andreini, La Ferza, Parigi, Callermont, 1625, in Ferruccio Marotti ? Giovanna Romei, La professione  del teatro, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 505-506).

Dopo il carnevale del 1609, al ritorno di Cecchini dalla Francia, le quotazioni degli Andreini presso i Gonzaga sono salite a tal punto da minare la leadership di Frittellino. Per ordine del duca le due coppie d’arte si riuniscono durante l’estate. Dopo aver dato alla luce, il 30 giugno a Milano, il primo figlio Pietro Enrico, Virginia assieme a Giovan Battista raggiunge i Cecchini a Torino. A quest’altezza cronologica fanno inoltre parte della compagnia Jacopo Antonio Fidenzi, Benedetto e Federico Ricci, Carlo De Vecchi, Aniello Di Mauro, Girolamo Garavini e Margherita Luciani. È l’inizio di un nuovo periodo di scontri, gelosie, ripicche e reciproche accuse. Al centro delle polemiche le «manieracce» di Frittellino e l’«avvelenata furia di Flaminia» che «avelena con gli sguardi biechi tutti li compagni suoi» (Giovan Battista Andreini a Ferdinando Gonzaga in Mantova, Torino 13 agosto 1609, Mantova, Archivio di Stato, Autografi, b. 10, cc. 21r-22r, in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., I, pp. 88-90). Particolarmente intense, durante il soggiorno torinese, le scintille tra le due primedonne. Florinda descrive così la rivale: «ho gettato a terra ogni trofeo eretto dalla S.ra Flaminia, e tanto se l’è slungato il naso, quanto lo haveva superbo alzato. Ella è odiata da tutto Torino per la sua alterigia [...]. Tutti li compagni sclamano della temerità sua e di Frittellino, et già l’hareino impiantata s’io non giungeva a Torino» (Virginia Ramponi a Ferdinando Gonzaga in Mantova, Torino 4 agosto 1609, Mantova, Archivio di Stato, Autografi, b. 10, c. 57rv, in Luigi Rasi, I Comici Italiani, Firenze, Bocca, 1897-1905, vol. I, pp. 140-141).

La strategia di Lelio e Florinda è ovviamente quella di isolare Frittellino e Flaminia, mostrandosi vittime dei soprusi e lodando viceversa i compagni più vessati dai due capocomici, in particolare Benedetto Ricci e, soprattutto, quel Carlo De Vecchi che di lì a pochi giorni verrà ucciso dal Cecchini «uxoris causa» (Oroscopo di Pier Maria Cecchini, in Luigi Rasi, I comici italiani, Firenze, Bocca, 1897-1905, vol. I, p. 630). In seguito all’omicidio il capocomico, assieme alla moglie e al fidato Jacopo Antonio Fidenzi, viene prima incarcerato e poi bandito da Torino. Gli Andreini si ritrovano così nuovamente padroni assoluti della scena, anche se la loro personale reputazione aveva già superato quella dei rivali in occasione dello spettacolo Le trasformazioni di Millefonti, favola pescatoria in due atti composta dal duca di Savoia e recitata il 24 agosto a Millefonti, luogo di villeggiatura della famiglia sabauda. A fare la differenza sono di nuovo le doti recitative e, forse soprattutto, musicali di Virginia Ramponi, protagonista dello spettacolo che «acquista non poca riputazione cantando et recitando con bellissima maniera» (Ascanio Sandri a Margherita di Savoia, Torino 17 agosto 1609, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 735, 1 c.n.n.).

Nel 1610 Lelio e Florinda, che ormai sembrano aver conquistato la guida della compagnia ducale, recitano a Mantova per il carnevale, a Venezia da maggio a settembre e a Ferrara a dicembre. L’anno successivo, per volere del duca, i Fedeli trascorrono il carnevale a Casale Monferrato, dove Virginia Ramponi il 29 aprile recita nel Rapimento di Proserpina di Ercole Marliani e Giulio Cesare Monteverdi, e dove probabilmente viene rappresentata per la prima volta La Turca di Giovan Battista Andreini, data alle stampe nella stessa Casale in agosto, con Virginia Ramponi ancora protagonista nel doppio ruolo di Candida e Nebì. Della compagnia, oltre agli Andreini, fanno parte in quel momento Federico e Benedetto Ricci, Bartolomeo Bongiovanni, Margherita Luciani, Girolamo Garavini e Aniello Di Mauro. Ma il soggiorno casalese sembra tutt’altro che fortunato, se il 24 gennaio Lelio e Florinda scrivono a Ercole Bentivoglio: «Noi siamo in Casale, con pochissimo guadagno, con grandissimo freddo, e con carissima legna, et infine con caro il tutto, et certo se non era commissione del Serenissimo di Mantova non lasciavamo giammai Ferrara per Casale» (Giovan Battista Andreini e Virginia Ramponi a Ercole Bentivoglio, Casale Monferrato 24 gennaio 1611, in Alessandra Zazo, Il teatro di Giovan Battista Andreini. La Turca, Tesi di Laurea in Storia dello Spettacolo discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze, a.a. 1984-1985, pp. 29-30), e ancora Virginia Ramponi l’8 febbraio: «Noi siamo qua dove altro non vediamo che neve, poca gente e poco utile» (Virginia Ramponi a Ercole Bentivoglio, Casale Monferrato 8 febbraio 1611, in ivi, pp. 30-31). Allo sfortunato carnevale si aggiungono in primavera i vecchi rancori di Cecchini, che cerca in tutti i modi di boicottare una tournée dei Fedeli a Milano e a Genova. Prontamente Florinda chiede l’intervento del duca: «Hora veda l’Altezza Sua se doppo un carnevale cattivo et una quaresima lunga debbe poi stare tutta una Compagnia così senza far nulla» (Virginia Ramponi a Francesco IV Gonzaga in Casale Monferrato, Mantova 21 marzo 1611, Mantova, Archivio di Stato, Autografi, b. 10, c. 59 rv, in Enrico Bevilacqua, Giambattista Andreini e la compagnia dei Fedeli, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XII, 1894, XXIII, pp. 129). La situazione si sblocca soltanto nel mese di giugno, quando finalmente il duca Vincenzo concede alla troupe di partire per Genova.

Ma stavolta l’ennesimo scontro con Frittellino e Flaminia ha in palio una posta altissima. È in preparazione una nuova spedizione in terra di Francia per festeggiare il doppio fidanzamento franco-spagnolo del futuro Luigi XIII con Anna d’Austria e della principessa Elisabetta di Francia con Filippo di Spagna. La richiesta giunge direttamente da Maria de’ Medici, reggente del trono di Francia dopo la morte di Enrico IV, la quale nel settembre del 1611 incarica l’Arlecchino Tristano Martinelli di assemblare una compagnia comica riunendo i migliori attori del momento. L’allestimento della troupe finisce così per essere il principale teatro della spietata guerra tra Accesi e Fedeli. A quest’altezza cronologica i favori del pubblico e delle corti sembrano essere definitivamente dalla parte degli Andreini, principali esponenti di una nuova generazione di attori, più preparati e più colti dei loro predecessori, più attenti nel collezionare e nell’esibire meriti, onorificenze e protezioni illustri.

La lotta tra i due capocomici e tra le due prime donne appare impari sotto ogni punto di vista. Il tentativo di Cecchini di guadagnare prestigio con la messa a stampa della commedia regolare La Flaminia schiava nel 1610, frana sotto la torrenziale produzione scritta, drammaturgica e non, di Lelio, che tra il 1610 e il 1612 pubblica un poema, un dialogo, due commedie e una sacra rappresentazione. Florinda dal canto suo, per eliminare la concorrenza di Flaminia, può far sfoggio non solo degli oggettivi meriti d’attrice e cantante conquistati sul campo, ma anche di imponenti e immortali immagini di sé, come i ritratti dell’attrice impressi nell’immaginario collettivo del tempo dal grande pittore mantovano Domenico Fetti, che aveva fatto della Ramponi la modella prediletta di molti suoi soggetti. A chiudere la partita è infine l’irrimediabile deteriorarsi dei rapporti tra i Cecchini e la corte gonzaghesca: il 22 gennaio del 1612 Vincenzo Gonzaga scrive al figlio Ferdinando «non mi si ricerchi il trattar di Flaminia e Frittellino, quali per giuste cause ho escluso affatto dal mio servizio» (Vincenzo I Gonzaga a Ferdinando Gonzaga in Parigi, Mantova 22 gennaio 1612, Mantova, Archivio di Stato, Autografi, b. 5, c. 33rv, in Armand Baschet, Les comédiens italiens à la cour de France sous Charles IX, Henry III, Henry IV et Louis XIII, Paris, Plon, 1882, pp. 208-209). Quasi scontato quindi che da subito, per preparare la formazione da condurre in Francia, Arlecchino si rivolga agli Andreini, raggiungendoli a Bologna alla fine del 1611.

La preparazione della tournée subisce ulteriori complicazioni. Oltre che dalle rivalità tra i comici, le trattative sono rallentate anche e soprattutto da questioni diplomatiche e politiche. Il duca Vincenzo è assolutamente contrario all’invio di comici in Francia, e nella già menzionata lettera del 22 gennaio, oltre ad accusare Tristano Martinelli di muoversi esclusivamente per interesse personale, sostiene perentoriamente che «il metter insieme, et mandar costì una buona Compagnia de Comici in questo tempo, et in questa disunione di Florinda e di Flaminia, l’ho per impossibile» (ibidem). La morte del duca, sopraggiunta il 12 febbraio del 1612, interrompe definitivamente la trattativa e i festeggiamenti per il doppio fidanzamento si svolgono senza i comici italiani. Ma l’ostinazione di Maria de' Medici costringe Arlecchino a ricominciare daccapo nell’impresa di creare una troupe da condurre in Francia. Le trattative durano praticamente tutto l’anno, e la consueta stagione teatrale dei Fedeli, a Ferrara per il carnevale (dove Lelio e Florinda duettano nel Prologo in dialogo tra Momo e la Verità), a Milano da giugno a settembre e a Firenze da ottobre a dicembre, si intreccia con difficoltà e dissapori sempre crescenti.  Consapevole del proprio prestigio e restia all’idea di lavorare sotto la direzione di Martinelli, Virginia Ramponi cerca di sottrargli il comando della troupe. Già nel dicembre del 1611 l’attrice aveva scritto a Ferdinando Gonzaga: «faccia Sua Signoria Illustrissima quello che di me più le aggrada, ma avverta (per grazia) due cose: l’una che il carico di far compagnia lo debba avere io e mio marito, per non perdere l’ordine che in queste parti habbiamo di farle, come al presente io ho la meglio compagnia che reciti, dov’è pur Arlecchino; perché l’haver Arlecchino mendicata l’autorità di far lui la compagnia non piace ad alcuno, et quando lui far la dovesse, alcun comico seco non andrebbe, sapendo ch’è troppo interessato» (Virginia Ramponi a Ferdinando Gonzaga in Parigi, Bologna 14 dicembre 1611, Mantova, Archivio di Stato, Autografi, b. 10, c. 60r, in Alessandro D’Ancona, Lettere di comici italiani del secolo XVII, Pisa, Nistri, 1893, pp. 11-12).

Ma le pretese di Florinda non si limitano a questo. L’attrice da qualche tempo aveva rinunciato all’esclusiva del ruolo di prima innamorata alternandosi nella parte con la più anziana Margherita Luciani, in arte Flavia, moglie del Capitano Rinoceronte Girolamo Garavini e amante del potente medico di corte Francesco Bruschi. Davanti alla rinnovata prospettiva di andare a Parigi, Virginia Ramponi è determinata a rompere il patto e a riprendersi il proprio privilegio. Flavia a sua volta non accetta il declassamento e, forte dell’influente protezione del Bruschi, si rifiuta di partire. Per uscire dall’impasse Arlecchino chiede l’intervento di Ferdinando Gonzaga, il quale richiama Florinda ai suoi obblighi. Disposta a tutto pur di andare in Francia, Virginia finisce per accettare ogni condizione, dalla condivisione del ruolo con Flavia alla direzione del Martinelli, scrivendo prontamente a Ferdinando Gonzaga e a Maria dei Medici un’abile e calcolata lettera di prostrazione: «Risolvo di andare, poiché le parole sue mi sollecitano al cammino» (Virginia Ramponi a Ferdinando Gonzaga in Roma, Milano 15 agosto 1612, Mantova, Archivio di Stato, Autografi, b. 10, c. 62rv, in Armand Baschet, Les comédiens italiens à la cour de France sous Charles IX, Henry III, Henry IV et Louis XIII, cit., p. 216).

Siamo alla metà di agosto, e problemi logistici costringono a rimandare ancora la partenza. Per di più, durante tutta l’estate Maria dei Medici, evidentemente ignara dei conflitti tra le compagnie italiane, continua a chiedere al Martinelli una truppa che includa tutte e tre le primedonne, Florinda, Flavia e Flaminia. La compagnia ducale, guidata da Tristano Martinelli, riesce a partire per la Francia soltanto nell’estate del 1613. Oltre a Lelio, Florinda e Arlecchino, fanno parte della spedizione Federico e Benedetto Ricci, Girolamo Garavini, Margherita Luciani, Bartolomeo Bongiovanni, Giovanni Pellesini, Lorenzo Nettuni, Virginia Rotari e una non meglio identificata Ricciolina. Molto probabilmente alla truppa si aggrega anche Francesco Andreini, onnipresente regista dietro le quinte e consigliere della carriera di Virginia e Giovan Battista.

Dopo una sosta a Torino e a Chambery, i comici arrivano a Lione a fine agosto, per poi raggiungere Parigi i primi di settembre. La compagnia fa il suo esordio nella capitale il 10 settembre, recitando nella piccola sala del Louvre per un ristretto numero di cortigiani. La qualità delle recite è tutt’altro che esaltante se il 15 settembre, dopo aver assistito alla messinscena della commedia di Giovan Battista Andreini Li duo Leli simili, Malherbe commenta: «Non so se fosse andato a male il condimento o il mio gusto, ma me ne sono andato con l’unica soddisfazione dell’onore fattomi dalla regina di avermi invitato: a Dio piacendo, vedremo più avanti e valuteremo con più agio» (François de Malherbe a Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, Parigi 15 settembre 1613, in François de Malherbe, Oevres, Paris, Gallimard, 1971, pp. 581-582). Le rivalità, la mancanza di amalgama e affiatamento tra i comici finiscono per incidere inevitabilmente sul rendimento. Limiti di cui gli stessi comici sembrano essere consapevoli, dal momento che proprio Martinelli afferma che «la compagnia è piaciutissima contra a ogni ragione, ma perché sono afamati di comedie ogni cosa è buona» (Tristano Martinelli ad Alessandro Striggi in Mantova, Fontainebleu 4 ottobre 1613, Mantova, Archivio di Stato, Autografi, b. 10, c. 185rv, in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., pp. 396-397). Il 16 settembre gli italiani raggiungono la corte a Fontainebleu, dove si trattengono fino al 21 novembre dando almeno trentanove rappresentazioni. Dal 24 novembre, rientrata a Parigi, la compagnia inizia la stagione invernale all’Hotel de Bourgogne, per cui lo stesso Arlecchino ha stipulato un contratto d’affitto con i potentissimi Confrères de la Passion fino a tutto il mese di marzo. Nonostante i risultati artistici al di sotto delle aspettative, la tournée francese risulta prodiga di successi personali, in particolare per Martinelli e per gli Andreini. Il primo, desiderato e corteggiato per anni dai regnanti, è ricoperto di denari, doni preziosi e onorificenze, mentre Lelio e Florinda, mese dopo mese, acquistano sempre maggior prestigio e credibilità presso la corte. Nell’aprile del 1614, con la compagnia trattenuta ancora a Parigi dall’ennesimo conflitto per il controllo del Monferrato, il prestigio di Lelio è almeno pari a quello di Arlecchino e il nuovo contratto per l’affitto dell’Hotel de Bourgogne, stipulato l’8 aprile, è intestato a entrambi.

La compagnia ducale lascia Parigi i primi di luglio. Sulla via del ritorno, tra luglio e settembre, Lelio e Florinda decidono di fermarsi nel sud della Francia, probabilmente a Lione e poi a Nancy presso la duchessa di Lorena. Martinelli, smanioso di tornare in Italia, abbandona la troupe: lo seguono Virginia Rotari, Girolamo Garavini e Bartolomeo Bongiovanni, mentre tutti gli altri restano con gli Andreini. Per Virginia e Giovan Battista è il coronamento di una strategia pazientemente perseguita: con l’abbandono spontaneo di Arlecchino diventano così capocomici assoluti sul campo. Il ruolo di padroni indiscussi delle scene italiane si consolida negli anni successivi, nel corso dei quali le loro tournées si susseguono senza sosta.

Nel 1615, a luglio, li troviamo a Mantova, assieme a Martinelli e ai Cecchini, provvisoriamente reintegrati nella compagnia ducale. L’anno successivo, da luglio e almeno fino a tutto il mese di agosto, sono a Milano, nel 1617 la loro presenza è segnalata a Ferrara nel mese di dicembre, mentre nel 1618 recitano in agosto a Milano e tra novembre e dicembre a Bologna. Ormai indiscutibilmente a capo della compagnia ducale, Lelio e Florinda in questi anni si garantiscono anche la protezione di don Giovanni dei Medici, già da qualche anno mecenate dei Confidenti diretti da Flaminio Scala, il quale raccomanda gli Andreini al cardinale Capponi per ottenere licenza di recitare a Bologna nell’autunno del 1616, e al quale Virginia Ramponi scrive nel novembre del 1618 per recitare a Venezia nella «stanza de’ signori Troni» (Virginia Ramponi a Giovanni de’ Medici in Venezia, Bologna 19 novembre 1618, Firenze, Archivio di Stato, Mediceo, f. 5143, c. 410rv, in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., p. 112).  

Proprio con don Giovanni, da Ferrara dove sono di stanza con tutta la compagnia ducale nel carnevale del 1619, gli Andreini iniziano a intavolare le trattative per una nuova tournée in Francia. Il mediceo ribelle è stato individuato dallo stesso Luigi XIII come possibile intermediario per la formazione di un gruppo di attori da mandare a Parigi. Sempre disposti a tutto pur di andare in Francia, Lelio e Florinda in un primo momento si dicono addirittura disposti a entrare, assieme ad Arlecchino, nella compagnia dei Confidenti: è questa infatti la proposta iniziale di don Giovanni, che nell’intenzione di preservare l’unità della sua formazione chiede la partenza dei Confidenti al completo con l’aggiunta di qualche elemento della compagnia ducale particolarmente amato dalla corte di Francia. Ben presto però don Giovanni si ritira dalle trattative, lasciando campo libero agli Andreini. La troupe viene quindi allestita, ancora una volta, sul nucleo dei migliori attori in forza alla compagnia ducale, ma rispetto alla precedente tournée francese le gerarchie si sono completamente ribaltate: la presenza del Martinelli è ancora conditio sine qua non per ogni spedizione oltralpe, ma l’organizzazione e la direzione della compagnia passano saldamente nelle mani degli Andreini.

Dopo un anno di preparativi, a metà giugno del 1620 la formazione si trova a Milano in procinto di partire. Oltre agli Andreini, ne fanno parte Tristano Martinelli, Stefano Castiglioni, Aniello Testa, Federico Ricci, Giovanni Rivani, Girolamo Garavini, Urania Liberati, Virginia Rotari e i ritrovati coniugi Cecchini. Di nuovo la convivenza è tutt’altro che facile, ma stavolta scandali e intrighi investono direttamente la vita matrimoniale di Lelio e Florinda. Proprio durante la tournée milanese inizia la relazione di Giovan Battista con l’attrice Virginia Rotari, detta Lidia in commedia. Senza curarsi delle conseguenze Lelio fa valere i suoi gradi di capocomico promuovendo la giovane amante dal ruolo di fantesca a quello di seconda innamorata.

Per difendere la moglie, interprete naturale di quella parte, ma soprattutto per vendicarsi dei torti subiti in passato, per riguadagnare terreno sui rivali di sempre, e per distruggere finalmente l’immagine di coppia perfetta sul palco e nella vita meticolosamente costruita per anni dagli Andreini, Frittellino non esita a rendere pubblico lo scandalo. Il 15 luglio da Milano Cecchini informa Vincenzo Gonzaga come Virginia Rotari «non sia la fantesca della compagnia ma la seconda donna nei suggeti di Lelio, levando o scemando quelle parti che son di mia moglie. Io non tratto che l’istesso Lelio facia astutamente far le seconde parti dei morosi al Capitano, per levar a lei il parlar con l’altro innamorato». Ma Frittellino non sa trattenersi, e nel giro di poche righe le insinuazioni si trasformano in franca ammissione: «Lelio è innamorato di Baldina, et fa spropositi tali che dà un vita infernale a quell’infelice di sua moglie». Al di là della furia vendicatrice di Cecchini, la perentorietà delle sue parole fa intendere come l’adulterio di Giovan Battista sia di dominio pubblico e, soprattutto, motivo di turbamento e confusione per tutta la compagnia. La richiesta finale di Frittellino al Gonzaga è infatti che «levi Baldina di compagnia» (Pier Maria Cecchini a Ferdinando Gonzaga in Mantova, Milano 15 luglio 1620, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1751, cc. 837r-838r, in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., pp. 282-283).

Davanti allo smarrimento dei compagni Lelio, forte del proprio intoccabile prestigio, si comporta con supponenza, dichiara di voler «far da sé», che «sa quello che può fare» (ibidem), rimescola ruoli, parti e gerarchie secondo i propri capricci e le proprie gelosie. Florinda al contrario è sola con la propria sofferenza, nelle stesse parole di Cecchini da acerrima nemica diventa una «infelice» degna di compassione, al punto che tra lei e l’antica rivale Flaminia corre «una scambievole amorevolezza» (ibidem). Per un gioco beffardo del destino, si trova a fare i conti con l’intricato processo di identificazione tra arte e vita nel modo più crudele: dopo aver conquistato una fama smisurata e aver commosso il pubblico cantando il lamento straziante di Arianna abbandonata da Teseo, è adesso la donna Virginia, e non l’attrice Florinda, abbandonata al proprio dolore di sposa tradita. A  differenza di Florinda, Virginia non ha un palco dove sublimare la propria sofferenza, e in preda alla disperazione scappa piangendo «in una chiesa dove si faceva tenir per spirtitata, et voleva mandar una carrozza per venirsene a Mantova». Ma alla spedizione si è di nuovo aggregato Francesco Andreini, stavolta con il chiaro compito di garantire l’equilibrio della famiglia. Proprio il venerando patriarca «un suo compare et il Moiada nostro portinaro corsero a rimediarvi, et la feccero rimanere» (Pier Maria Cecchini a Ferdinando Gonzaga in Mantova, Milano 28 agosto 1620, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1751, cc. 876r-877r, in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., pp. 286-287). Le esigenze del mestiere scavalcavano i turbamenti personali: la presenza della Ramponi è pretesa dai regnanti, dal pubblico, dagli stessi compagni d’avventura. Occorre quindi accantonare lo strazio di Virginia e mandare in Francia il sublime talento di Florinda.

Davanti alle accuse di Frittellino e degli altri compagni, che ad eccezione della Rotari sembrano tutti schierati dalla parte di Virginia, Lelio reagisce con la solita prepotenza: ammette francamente l’innamoramento per la Baldina, inevitabile e travolgente come uno «sforzo imperioso di stella», accusa i compagni di alimentare le tensioni con inutili pettegolezzi e liquida i patimenti della moglie, la quale da giorni ha aperto «le cateratte al pianto e la bocca agl’improperi», come «femminili leggerezze» (Giovan Battista Andreini a Ferdinando Gonzaga in Mantova, Milano 5 agosto 1620, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1751, cc. 858r-861r, in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., I, pp. 121-125). Ma le credenziali di cui gode Giovan Battista Andreini presso i Gonzaga sono inattaccabili, e la sua leadership non viene mai messa in discussione. Tensioni e recriminazioni si risolvono così in una serie di defezioni e sostituzioni dell’ultimo momento. I Cecchini, i più feroci osteggiatori della Rotari, con l’avallo del duca vengono licenziati in tronco intorno alla fine di settembre, e nello stesso periodo anche Aniello Testa rinuncia alla tournée. A sostituire due zanni e una seconda innamorata vengono chiamati un Pantalone, Benedetto Ricci, e uno zanni, Lorenzo Nettuni. La gestione dittatoriale di Lelio finisce per ridisegnare lo schema classico delle compagnie dell’arte adattandolo alle sue esigenze di drammaturgo, nonché ai suoi personali interessi: privarsi di Flaminia e non chiamare un’altra attrice al suo posto va ovviamente a rafforzare il ruolo della Rotari.

La compagnia parte finalmente per la Francia il 20 ottobre del 1620 e dopo una sosta a Torino in novembre, il 12 gennaio 1621 debutta a corte davanti a un entusiasta Luigi XIII. Nonostante i burrascosi antefatti, gli spettacoli riscuotono subito grande successo e ottimi guadagni. La stessa regina Anna scrive al duca di Mantova per esprimere la propria soddisfazione per il servizio reso dai comici: «Mon cousin, les Comédiens Italiens, que vous nous avez envoyez ici font si bien leur devoir, de donner du contentement au Roy Monseigneur et a moy» (Anna d’Asburgo a Ferdinando Gonzaga in Mantova, Parigi 6 marzo 1621, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 628, c. 292r). Ma in Francia spirano venti di guerra. A fine aprile la sollevazione delle province ugonotte spinge il sovrano a intraprendere una nuova campagna militare. La partenza del re priva gli italiani del principale committente e di conseguenza di una buona fetta di introiti. L’impaziente e ormai anziano Martinelli opta per un immediato rientro. Lelio è però di diverso avviso: il capocomico punta al contrario a prolungare il più possibile il soggiorno parigino, magari sfruttando proprio l’assenza dei reali per tessere una fitta rete di amicizie e protezioni tra i cortigiani più influenti. Nonostante i suoi metodi tirannici e dittatoriali, a differenza della precedente tournée francese gli attori stavolta sono tutti dalla parte di Andreini. I comici al completo sottoscrivono due lettere di Lelio indirizzate a Ferdinando Gonzaga per denunciare l’insubordinazione di Arlecchino e opporsi all’ingresso in compagnia di Silvio Fiorillo e del figlio Giovan Battista, caldeggiato dallo stesso Martinelli.

A luglio Arlecchino abbandona i compagni, che resteranno in Francia fino al carnevale dell’anno successivo. Lelio è ormai il padrone assoluto della troupe, mentre Florinda, che fino a questo momento aveva guidato la compagnia insieme al marito, provata dalla crisi coniugale, non più giovane e forse non più attraente come un tempo, sembra retrocessa in secondo piano. Il suo nome non figura nemmeno nella prima delle due lettere contro Arlecchino, e anche nel resto dell’epistolario del marito, da qui in avanti, la sua figura perde gradualmente l’importanza centrale e imprescindibile avuta finora in trattative, suppliche e richieste di protezione. Anche sul palco il suo ruolo di unica e indiscussa primadonna, nello scoperto gioco di specchi tra teatro e vita reale caro a Lelio, è destinato a essere diviso con la Rotari. Il repertorio francese di Virginia Ramponi, e del resto della compagnia, è in parte desumibile dalla drammaturgia di Giovan Battista Andreini, che nel corso del 1622 dà alle stampe a Parigi ben sei commedie, tutte edite presso Della Vigna: una sorta di consuntivo della lunga tournée il cui centro drammaturgico e tematico sembra essere sempre, più o meno scopertamente, il delicato mènage à trois.   

Ne Li duo Lelii simili Florinda è amata da un Lelio puro e innocente: un altro Lelio, altrettanto incolpevole, che però tutti credono essere la stessa persona del primo, ama la giovane Lidia, interpretata ovviamente dalla Rotari. Con La Sultana Virginia Ramponi ha di nuovo l’occasione di sfoggiare tutto il suo più alto e celebre repertorio, dal canto al lamento della donna abbandonata: nell’occasione la rivale, con ogni probabilità interprete della cortigiana Tirenia, diventa sua alleata nella condanna dell’uomo amato da entrambe, reo confesso quale «infame puttaniero» (Giovan Battista Andreini, La Sultana, Parigi, Dalla Vigna, 1622, p. 51). L’alleanza sul palco delle due rivali nella vita diventa addirittura palese amore omosessuale nell’Amor nello specchio, mentre ne La Centaura la protagonista Florinda torna a dividere l’amore di Lelio con la giovane Lidia.

Declassata da protagonista a coprotagonista, l’ultimo decennio di attività della Ramponi si consuma nell’ombra del marito capocomico. L’alluvione di stampe, l’abile campagna pubblicitaria e il dominio incontrastato della compagnia, fruttano a Lelio il favore assoluto della corte di Francia: tornata in Italia dopo il carnevale del 1622, a dicembre la compagnia è di nuovo a Parigi. La tournée stavolta è di breve durata, e gli Andreini trascorrono tutta l’estate del 1623 a Venezia e nell’entroterra veneto. Con loro in compagnia sono senz’altro presenti Tristano Martinelli, Girolamo Garavini, Giovan Paolo Fabri, Giovanni Rivani, Girolamo Caffa e, ovviamente, Virginia Rotari. Sempre a Venezia, in giugno, Giovan Battista Andreini stampa Le due comedie in comedia, probabilmente rappresentata poco prima. Nello spettacolo Virginia Ramponi, interprete della matura innamorata Arminia, si esibisce ancora una volta in tutte le sue qualità musicali: è «maestra d’insegnar chitarra alla spagnuola», canta un’aria «a suo capriccio». E il canto più appassionato della commedia l’attrice lo riserva ovviamente al tema della gelosia e della donna abbandonata, disperandosi contro chi «leva l’amante e ‘l marito» (Giovan Battista Andreini, Le due comedie in comedia, in Commedie dell’Arte, a cura di Siro Ferrone, vol. II, pp. 17-105).

A novembre troviamo i comici a Torino, di nuovo in procinto di partire per la Francia su diretta richiesta di Luigi XIII. Alla nuova spedizione, con Lelio e Florinda, partecipano probabilmente i soliti Girolamo Garavini, Federico Ricci e Virginia Rotari, con l’aggiunta di Francesco Gabrielli e Nicolò Barbieri. A Parigi resteranno almeno fino a tutto l’ottobre del 1625. Non abbiamo loro notizie fino all’autunno del 1626, quando li ritroviamo a Cremona, dove in compagnia sono di nuovo presenti Pier Maria Cecchini e Orsola Posmoni. L’ultimo atto dell’infinita inimicizia si consuma tra nuove polemiche e maldicenze. Frittellino è accusato di volersi segretamente accasare a un’altra formazione, Flaminia, ormai anziana, è definita una «arpia» che «il mondo non può più sostener di veder [...] tanto è difforme» (Giovan Battista Andreini a un segretario ducale in Mantova, Cremona 20 settembre 1626, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1757, 1 c.n.n., in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., pp. 139-140). Virginia Ramponi sembra ormai sparita da queste cronache: come quello di Tristano Martinelli il suo nome compare come eco lontana, muto reperto di una stagione che fu.

Florinda segue ancora Lelio nelle successive peregrinazioni. Forse trascorre il carnevale del 1627 a Venezia, mentre a fine anno raggiunge con Giovan Battista la corte cesarea, al termine di una trattativa con l’Imperatore che inizialmente prevedeva la partecipazione del Martinelli. Agli Andreini si aggregano Silvio e Giovan Battista Fiorillo, Marc’Antonio Romagnesi, Giovanni Rivani, Isabella Cima, Virginia Rotari e Prudenza Carpiani. Nonostante la perdita del ruolo di guida della compagnia, il mito di Virginia Ramponi è ancora vivo, al punto che l’attrice al suo arrivo è salutata come «la migliore comica di Italia». Per Florinda una piccola rivincita: dopo le umiliazioni degli anni precedenti, la rivale Lidia viene definita al contrario «non delle migliori» (Maria Anna d’Asburgo a Leopoldo  Guglielmo in Vienna, Praga 5 gennaio 1628, Vienna, Haus- Hof- und Staatsarchiv - Hausarchiv - Habsburgisch-Lothringisches Familienarchiv, Familienkorrispondenz, K. 48, fol. 33-36, in Otto G. Schindler, Viaggi teatrali tra l’inquisizione e il sacco, in I Gonzaga e l’Impero, a cura di Umberto Artioli e Cristina Grazioli, Firenze, Le Lettere, 2005, p. 136). Con grande successo, i Fedeli recitano tra Praga e Vienna fino al marzo del 1629.

Nell’autunno dello stesso anno li ritroviamo a Mantova, città in cui Virginia dovrà «in carnevale recitare» (Giovan Battista Andreini a Girolamo Parma in Venezia, Mantova, 26 settembre 1629, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 2785, c.258rv, in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., p. 141). La possibile partecipazione al carnevale mantovano del 1630 è l’ultima notizia a noi nota sull’attrice. Quando Giovan Battista Andreini il 17 settembre 1631 scrive a Carlo I Gonzaga Nevers, Virginia Ramponi è già morta: «provo nell’anima il nuovo irraccontabile svaligio di quanto si compiacque la morte di levarmi di custodito e di caro» (Giovan Battista Andreini a Carlo I Gonzaga Nevers in Goito, Bologna 17 settembre 1631, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1174, 1 c.n.n., in Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., pp. 150-151). Con ogni probabilità è morta durante l’estate, a quarantotto anni, per cause a noi sconosciute. La grande Virginia sparisce così in silenzio, senza i clamori che accompagnarono la morte della suocera Isabella di cui appena ventenne seppe raccoglierne senza timori la pesante eredità. Ma se la donna Virginia svanisce nel nulla, resta immortale l’attrice Florinda, la sua malinconia e il suo canto straziante.


Famiglia

Della famiglia naturale di Virginia Ramponi conosciamo il nome della madre, Tommasina, che compare in alcuni atti di compravendita di terreni in qualità di agente e rappresentante legale di Giovan Battista Andreini, e quello del padre, Girolamo, senese, citato nell'atto di matrimonio della figlia. Molto probabilmente né i genitori né altri componenti della famiglia praticarono mai il mestiere dell’attore, ma sposando Giovan Battista Andreini Virginia diventa figlia d’arte ‘adottiva’, entrando a tutti gli effetti nella più importante famiglia comica del tempo. Sfruttando sapientemente il cognome illustre ricevuto in dote dalle nozze (nelle lettere, nelle suppliche e in altri documenti ufficiali si firmerà sempre Virginia Andreini anziché Ramponi), l’attrice assieme al marito si pone da subito come erede e continuatrice della leggendaria carriera dei celeberrimi Francesco e Isabella. Proprio Isabella Andreini, attraverso la pubblicazione delle proprie opere, la frequentazione di illustri accademie letterarie e l’esaltazione della propria immagine, inaugura un nuovo modo di intendere la professione teatrale, basata principalmente sull’emancipazione dell’attore e sulla nobilitazione dell’arte comica, non più socialmente emarginata ma capace di misurarsi con i più alti modelli letterari dell’epoca e di accrescerli attraverso l’esperienza del palcoscenico.

La strategia, proseguita da Francesco Andreini, abile anche e soprattutto nel conservare e perpetuare la fama post mortem della moglie attraverso la pubblicazione postuma di sapienti e calcolate edizioni degli scritti di Isabella, viene portata a compimento da Virginia e Giovan Battista. La costruzione di una mitopoiesi dell’attore per Giovan Battista Andreini si concretizza soprattutto nella sua torrenziale attività di scrittore. Attraverso gli scritti teorici il capocomico dei Fedeli rivendica con forza il nuovo modello comico, mentre la sua infaticabile produzione drammaturgica risulta un graduale percorso verso la definitiva autonomia e consacrazione dell’arte teatrale. E se dagli insegnamenti dei genitori Giovan Battista desume principalmente lo strumento della scrittura come nobilitazione dell’arte scenica, Virginia Ramponi, allo stesso modo di Isabella, diventa l’incarnazione stessa del mito della diva virtuosa e seducente, la cui arte viene celebrata ed eternata nei versi dei poeti e nelle tele dei pittori.

La continuità di intenti e strategie tra le due coppie d’attori consegna alla famiglia Andreini il ruolo di protagonista assoluta delle scene comiche per almeno un cinquantennio, caratterizzandola come il simbolo stesso della celebrazione mitica dell’attore e del riscatto dall’evanescenza del palcoscenico attraverso la costruzione di una gloria imperitura.


Formazione

I primi documenti in nostro possesso sull’attività artistica di Virginia Ramponi, risalenti agli anni tra il 1604 e il 1606, ci offrono l’immagine di un’attrice già matura e celebrata, dotata di un bagaglio di competenze tecniche tale da permetterle di spaziare dalla tragedia alla commedia, dalla prosa alla musica. Logico quindi presupporre un esordio precedente a queste prime esaltanti apparizioni. Secondo Bartoli fu Giovan Battista Andreini a iniziarla «nel mestier del Teatro», aiutandola a specializzarsi nel ruolo di prima innamorata (Notizie Istoriche de’ comici italiani, Bologna, Forni, 1979, vol. I, p. 38). Senza dubbio l’ingresso nella famiglia Andreini fu determinante nella formazione dell’attrice, anche se il ruolo diretto di Giovan Battista pare ridimensionato dalla storia dei primi anni di carriera della coppia, segnati soprattutto dagli inarrestabili successi personali di Virginia. Ben più importante per il suo apprendistato sembra essere l’incontro con la suocera Isabella, che ebbe senz’altro modo di vedere all’opera nei suoi ultimi anni di attività e da cui seppe desumere i tratti più peculiari della sua tecnica recitativa, nonché l’immagine di donna colta e virtuosa fuori dalle scene. Un’eredità pesantissima e difficile da cui però Virginia non rimase schiacciata, ma che al contrario riuscì a reinterpretare in maniera del tutto autonoma e indipendente. Della leggendaria Isabella Andreini, Virginia Ramponi ripropose anche la celebre Pazzia, ottenendo un successo pari a quello della suocera, tale da essere immortalato nei versi di un sonetto anonimo: «Corri disciolta il crin, squarciati i panni/ Segue l’alma il furor, segue gli affanni» (Sopra i varij effetti di pallore e rossore che si videro sul volto di Florinda [...], in Luigi Rasi, I Comici Italiani, Firenze, Bocca, 1897-1905, I, pp. 147-148).


Interpretazioni/Stile

Il ruolo tradizionalmente attribuito a Virginia Ramponi è quello dell’innamorata, recitato in italiano colto e senza maschera. Ma nel caso di Florinda appare più che altro una definizione di comodo: l’attrice, aiutata dalla più complessa e matura drammaturgia del marito ma soprattutto dal suo straordinario talento e dall’imponente e variegato campionario di competenze artistiche in suo possesso, andò al di là di qualsiasi convenzione e stereotipo imposti dal ruolo, finendo per primeggiare in qualsiasi genere teatrale e performativo, dalla recitazione al canto, dalla commedia improvvisa a quella regolare, dalla tragedia alla pastorale, dalla performance solitaria all’opera in musica. Proprio questa complessa molteplicità di registri interpretativi sembra essere la caratteristica più importante della recitazione di Virginia, nonché la ragione principale del suo travolgente e precoce successo presso i contemporanei, tale da scalzare in pochissimo tempo la concorrenza di più esperte e mature colleghe, come Orsola Posmoni e Margherita Luciani.

In particolare lo scarto qualitativo tra la Ramponi e le altre primedonne del tempo sembra segnato dalle qualità canore e musicali di Florinda, alla base del successo dell’attrice soprattutto nei primi anni di carriera. Dopo aver allietato la casa del conte di Fuentes «con cantare et sonare» (Lelio Belloni ad Annibale Chieppio in Mantova, Milano 25 settembre 1606, Mantova, Archivio di Stato, Gonzaga, b. 1730, 1 c.n.n.), Virginia consegna definitivamente il proprio talento al mito grazie ad un’altra performance canora, la celeberrima intepretazione dell’Arianna di Rinuccini e Monteverdi nel corso delle feste mantovane nella primavera del 1608. Stando alle cronache del tempo, il momento più alto dell’atto unico monteverdiano fu l’assolo della scena settima, dove l’attrice cantò lo strazio di Arianna abbandonata da Teseo con un’intensità tale da «far piangere molti la sua disgrazia» (Annibale Roncaglia a Cesare d’Este in Modena, Mantova 29 maggio 1608, Modena, Archivio di Stato, Estense, Ambasciatori, Mantova, b. 8, fasc. 6, c. 4rv, in Claudia Burattelli, Spettacoli di corte a Mantova tra Cinque e Seicento, Firenze, Le Lettere, 1999, pp. 44-45). Il successo fu così clamoroso che ben presto il lamento della donna abbandonata, così come era stata la pazzia per la suocera Isabella, divenne un vero e proprio cavallo di battaglia di Florinda, riproposto in svariate occasioni e con registri sempre nuovi soprattutto all’interno delle opere del marito.

Proprio grazie alla drammaturgia di Giovan Battista Andreini, dove una maggiore consapevolezza del mestiere comico assottiglia la distanza tra la messa in scena e la stampa, risulta in parte più agevole il tentativo di ricostruire lo stile interpretativo di Virginia. Altri indizi sono rintracciabili in alcune preziose fonti iconografiche, prime fra tutte le splendide tele del pittore mantovano Domenico Fetti, che molto probabilmente in più di un’occasione usò Virginia Ramponi come modella per i suoi ritratti. È possibile ipotizzare che la figura femminile del quadro Arianna e Bacco nell’isola di Nasso, databile tra il 1611 e il 1613 e commissionato al Fetti dal grande protettore degli Andreini Ferdinando Gonzaga, abbia proprio le fattezze di Florinda, anche e soprattutto in virtù della fortunata interpretazione della commedia musicale di Monteverdi. La disposizione e l’atteggiamento dei personaggi del dipinto è assolutamente teatrale, Arianna è in procinto di poggiare il piede sulla spiaggia di Nasso, la mano destra è protesa verso l’alto in segno di redenzione: Domenico Fetti sembra fissare sulla tela il momento esatto della rigenerazione di Arianna-Florinda. La donna dopo aver vissuto l’inferno dell’abbandono e della solitudine gridando «Misera! ancor do loco/ a la tradita speme, e non si spegne,/ fra tanto scherno ancor, d'amore il foco?/ Spegni to, Morte, omai le fiamme indegne.», dopo aver attraversato il purgatorio della penitenza invocando disperata «O madre, o padre, o de l'antico regno/ superbi alberghi,/ ov'ebbi d'or la cuna,/ o servi, o fifi amici (ahi Fato indegno!),/ mirate ove m'ha scorto empia fortuna!/ Mirate di che dual m'han fatto erede/ l'amor mio, la mia fede, e l'altrui inganno./ Così va chi troppo ama e troppo crede» (Claudio Monteverdi, Arianna, Venezia, Imberti, 1622), è pronta per ritrovare il paradiso e ascendere al cielo.

Gli stessi lineamenti della donna dipinta dal Fetti, quella «lunga chioma bionda che fa da piacevole contrasto alla sua carnagione chiara» e quegli «occhi intensi, un po’ esoftalmici» (Siro Ferrone, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 170), sembrano riprodurre il fascino e la bellezza di Virginia Ramponi, più volte celebrati nei versi dei poeti del tempo: «Le chiome, gl’occhi, e i labri,/ Son oro, stelle e rose,/ Ch’in voi (donna gentil) Natura pose» (Don Venanzio Galvagni, Madrigale per Virginia Ramponi, in Luigi Rasi, I comici italiani, Firenze, Bocca, 1897-1905, vol. I, p. 145). La parabola di Arianna, «da regina fatta povera, sul punto di ritrovare con Bacco l’empito che la innalza di nuovo al cielo» (Siro Ferrone, Attori mercanti corsari, Torino, Einaudi, 1993, p. 244), ricalca perfettamente la nuova immagine dell’attrice professionista voluta e perseguita dalla strategia promozionale degli Andreini, inaugurata da Isabella e proseguita e perfezionata da Virginia: dall’inferno della strada ai cieli del mito e della più alta cultura. Un continuo percorso di redenzione riproposto ciclicamente nelle più celebri interpretazioni dell’attrice.

Oltre alla straordinaria varietà di competenze tecniche, la doppiezza è l’altra particolarità del registro recitativo di Virginia: attrice seducente e moglie virtuosa, peccatrice e martire, miserabile e regina, prostituta e santa. Proprio il tema del doppio risulta il perno centrale delle opere di Giovan Battista Andreini, di cui spesso Florinda è protagonista assoluta. Spesso l’intero impianto drammaturgico sembra essere costruito apposta per esaltare le molteplici doti della prima donna, su cui finisce per reggersi tutto l’intreccio. Il gioco scenico de La Turca, prima commedia data alle stampe da Andreini, ruota tutto attorno al doppio ruolo dei gemelli Candida e Nebì interpretato dalla Ramponi, impegnata in una virtuosistica giravolta di travestimenti e cambi di identità.

Esemplare l’ottava scena dell’atto quinto, dove l’attrice entra in scena vestendo gli abiti femminili di Candida e viene scambiata dal poeta Laurindo per Nebì vestito da donna: «POETA ? Vedete questo bricconcello come s’infinge donna». Subito dopo Virginia esce di scena per ripresentarsi pochi istanti dopo nelle vesti maschili di Nebì. La magia della recitazione è compiuta, il disorientamento degli altri personaggi è totale: «POETA ? Non se’ tu ora entrato in casa del signor Lelio, al mio dispetto, in abiti femminili? Non dir di no, perché siamo in duo che t’abbiamo veduto» (Giovan Battista Andreini, La Turca, Casale Monferrato, Goffi, 1611, pp. 163-164). Davanti all’illusione scenica generata dalla straordinaria tecnica dell’attrice, i personaggi sono confusi, gli spettatori affascinati e sedotti: Virginia è uomo e donna al tempo stesso, concreta ed evanescente, reale e fittizia. Una fascinazione carica di ambiguità ed erotismo celebrata anche in un anonimo madrigale del tempo: «Donna qualhor vegg’io/ Ch’or furi a l’huomo hor a la donna in scherzo/ Gl’abiti e i vestimenti/ Venere e amor mi sembri a i portamenti./ Così di madre, e figlio/ Fingi in habito terzo/ Le tue grazie il tuo ciglio./ Ahi ch’in sì strani modi/ Fingendo stringi i cori in mille nodi» (Quando veste habito da huomo, in Siro Ferrone, Attori mercanti corsari, Torino, Einaudi, 1993, p. 267, n. 67). Inoltre, l’ovvia e inevitabile agnizione che chiude la commedia, in cui la fanciulla smarrita Candida si scopre figlia legittima del poeta Laurindo, porta a compimento il solito percorso di ascesa dall’inferno al paradiso: la redenzione del personaggio Candida coincide con quella dell’attrice Virginia, che riscatta col suo virtuosismo lo scandalo della seduzione.

Di nuovo in abiti maschili l’attrice si ripresenta ne Lo Schiavetto. Stavolta il gioco è meno complesso: si tratta semplicemente di Florinda sotto mentite spoglie per vendicarsi dell’ingrato amante Orazio. La doppia redenzione della donna e dell’attrice è tutta nella rivelazione finale della propria identità sessuale, dove Florinda rinuncia al proposito di uccidere Orazio, ottenendo il suo perdono e riconquistando il suo amore: da donna travestita da uomo e omicida a sposa virtuosa e felice. Rivelando la propria identità, Virginia-Florinda si esibisce ancora nel suo numero prediletto, il lamento della donna abbandonata, la cui sofferenza è anche ulteriore giustificazione dello scandalo del travestimento, ulteriore gradino verso la rigenerazione: «E quella (o crudo) alfin son io, che tu lusingando invaghisti, che falseggiando tradisti, che violando uccidesti. [...] Considera or tu, con quanto pianto prima vestii queste membra, che di queste vestimenta io m'appagassi di ricoprirle. [...] Pensa deh, pensa or tu, a quante calamità di lunga e incerta peregrinazione si avventurò donna, che per natura altro conoscer non dee che gli angusti confini della sua casa!» (Giovan Battista Andreini, Lo Schiavetto, Milano, Malatesta, 1612, in Laura Falavolti, Commedie dei comici dell’arta, Torino, UTET, 1982, pp. 57-213).

Un registro malinconico particolarmente caro a Virginia e agli spettatori del tempo. Un altro quadro di Domenico Fetti, intitolato appunto Melanconia, è dominato da una figura femminile straordinariamente simile all’Arianna del dipinto menzionato in precedenza, nelle cui fattezze sembra di cogliere la Ramponi in una delle sue pose sceniche più tipiche: raccolta in malinconica meditazione, avvolta dalla penombra, circondata da oggetti simbolo del sapere e delle arti. La malinconia di Virginia è rintracciabile in tutte le grandi opere andreiniane degli anni venti. Con accenti ancor più malinconici del solito, ritroviamo il consueto lamento della donna abbandonata ne Le due comedie in comedia: «né così tosto l’empio, l’ingannatore, ha colto nel giardino de’ più teneri anni miei il fior di mia virginità, che rapido su l’ali di leggerezza vana, d’infedeltà costante, se ne fugge». Malinconia che repentinamente si trasforma in ira e fuoriosa gelosia alla vita della rivale in amore: «lasciatime levar la vita a chi mi leva l’amante e ‘l marito» (Giovan Battista Andreini, Le due comedie in comedia, in Commedie dell’Arte, a cura di Siro Ferrone, Milano, Mursia, 1986, II, pp. 17-105). 

Dalla rabbia alla dolcezza, dal canto al brillante scambio di battute, dal sussurro al grido, dalla malinconia alla disperazione. Virginia Ramponi rappresenta senza dubbio l’espressione più alta di un professionismo teatrale nel pieno della sua parabola evolutiva: attrice eclettica, versatile, poliedrica, in grado di appropriarsi di qualsiasi timbro recitativo e di interpretare qualsiasi sentimento, capace col suo smisurato talento di affrancarsi dall’evanescenza dell’arte comica imprimendosi nella memoria collettiva e imperitura e diventando perciò immortale.  


Scritti/Opere

Musa ispiratrice e oggetto di numerose opere poetiche, Virginia Ramponi fu a sua volta autrice di qualche poesia «non del tutto sprezzabile» (Luigi Rasi, I Comici Italiani, Firenze, Bocca, 1897-1905, vol. I, p. 139). La scrittura fu ad ogni modo un’attività sporadica e assai poco rilevante all’interno dell’illustre carriera dell’attrice. Le sue composizioni sono il risultato di occasionali esperimenti di maniera che si limitano a ricalcare in modo assai banale i più diffusi topoi letterari del tempo. Tra queste, almeno una menzione meritano il sonetto Cigno felice scritto per il marito Giovan Battista Andreini e un madrigale di risposta al poeta Pomponio Montanaro, entrambi pubblicati da Rasi nel suo dizionario biografico.  

Progettazione tecnica a cura di