Dopo Tetillo, il nuovo stile scarpettiano si articolò in una variegata declinazione di tipi, tanti quanti furono i personaggi dei vari testi interpretati fino all'addio alle scene; l'esteriore identità era garantita dal nome (Don Felice Sciosciammoccca, appunto, in ossequio ad una convenzione ancora ben viva nel pubblico) mentre la profonda coerenza del carattere era assicurata dal carisma e dalla personalità stessa dell'attore ormai coincidente con il personaggio. Così Don Felice diventò il "baccalaiuolo" arricchito, sposato infelicemente con Donna Amalia dello Scarfalietto; fu una delle Tre pecore viziose, un Don Giovanni frustrato e squattrinato; fu il notaio vedovo, desideroso di rimaritarsi per avidità di denaro in Nun la trovo a maretà, in cui «Il Pungolo» rilevò che all'attore «basta una parola, un gesto, una contrazione dei muscoli facciali per enlever la sua piccola ma ormai esigente platea» (Ivi, p. 128).
Scarpetta, più o meno scopertamente, continuava ad attingere alla riserva dei giochi attorici sancarliniani anche impersonando il Don Felice miope, giovane borghese in caccia di una buona dote di 'Nu frungillo cecato: «Il frungillo cecato è Don Felice Sciosciammocca, è Sciosciammocca autentico quale fu creato in origine dallo Scarpetta, e di cui nell'ultima maniera delle commedie tradotte dal francese si andava perdendo lo stampo e il ricordo» (Ivi, p. 130). Fu l'organista del convento delle Rondinelle e di sera l'autore di operette nella celebre 'Na Santarella: «Scarpetta in questa sua Santarella s'è tagliata una parte nella quale Don Felice Sciosciammocca, sotto la zimarra dell'organista e il paletot troppo corto dell'operettista, passa il punto dove per naturalezza ed efficacia comica, la maschera diventa carattere» (Ivi, p.144). La via intrapresa non conobbe poi altro che successi più o meno intensi.
Va, d'altro canto, segnalato che, accanto alla prevalente vena comica dell'interpretazione scarpettiana, convisse in costante penombra una potenziale espressività drammatica raramente esibita in scena da Scarpetta sia per non contraddire la dichiarata opzione per un teatro dialettale comico sia per non mostrarsi sensibile alle rimostranze dei fautori del teatro dialettale d'Arte. Eppure quelle corde si affacciarono nel Pezzente resagliuto (1880) non accettato dal pubblico del San Carlino che amava soltanto ridere; si precisarono nel famoso primo atto di Miseria e nobiltà (1888) dove Felice è alla fame a causa di un mestiere (quello dello scrivano) che non dà più alcun reddito né speranza di ripresa ed è allo stremo per la situazione familiare in cui si trova: senza tetto, ospite dell'amico Pasquale, un altro miserabile come lui; è il compagno della rancorosa Lisetta e il padre inascoltato del piccolo Peppeniello che infatti fugge di casa.
La vena drammatica si manifestò ancora più apertamente in Il debutto di Gemma (1901). Questo atto unico venne ricordato da Eduardo De Filippo per la straordinaria prova d'attore di Scarpetta, interprete del ruolo del suggeritore di un'affamata compagnia di guitti di cui fa parte la giovane attrice gravemente malata e che tuttavia non rinuncia al suo primo esordio in palcoscenico: «Uomini della mia età – scrisse De Filippo nel 1961 – o più vecchi ricorderanno il pallore cadaverico che scendeva sul volto dell'attore, quando, al centro del palcoscenico, gli spirava fra le braccia la piccola debuttante» (E. De Filippo, Prefazione a M. Mangini, Eduardo Scarpetta e il suo tempo, Napoli, Montanino, 1961, p. 11). L'ultimo approdo stilistico scarpettiano è, infine, quello della svagatezza in 'O Miedeco d' 'e pazze (1908). Qui Felice è un borghese agiato e provinciale, ma visionario e, appunto, svagato. Egli è un personaggio che non ha bisogno di ricorrere alla caratterizzazione macchiettistica, giungendo a farsi definire dallo sfaccettato rifrangersi dell'opinione degli altri personaggi, ciascuno portatore di una falsa verità.
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